Asia

L’Australia e la nuova Casa Bianca di Trump

23 Novembre 2016

A due settimane dalla inattesa vittoria del magnate newyorkese, le incognite e le perplessità non diminuiscono. In tutto il mondo si diffondono gli interrogativi sulle direzioni future della politica americana. Soprattutto della politica estera e di difesa, ma non di meno per quel che riguarda il commercio internazionale. Il progetto TPP (la partnership Transpacifica, di cui abbiamo già parlato in un precedente post) lanciato dall’amministrazione Obama come complemento economico al “Pivot to Asia”, lo spostamento delle attenzioni strategico-militari americane dall’Atlantico al Pacifico, pare ormai su un binario morto. Lo ha dichiarato Trump nel suo programma dei primi 100 giorni proprio ieri, dicendo di preferire accordi bilaterali con singoli paesi.

Gli altri partner del progetto devono adesso decidere se congelare un lavoro già molto avanzato in attesa del futuro o andare avanti da soli. Ma il Giappone ha immediatamente detto che un’area di libero scambio transpacifica senza gli USA non ha senso. Il Premier Australiano Turnbull continua ad insistere sulla bontà del progetto e a predicarne i benefici. Il rischio è che un progetto nato per escludere la Cina, con un’America che si sfila, venga sostituito da una proposta alternativa a guida cinese, la RCEP (Regional Comprensive Economic Partnership) .

Non si può negare che Trump, durante tutto il periodo della sua vincente campagna, abbia mandato segnali di forte rottura rispetto agli orientamenti storici degli USA. Talvolta anche segnali contraddittori. Se a questo aggiungiamo che il suo entourage non abbonda di politici esperti ne di intellettuali affermati, non possiamo stupirci dello sbigottimento planetario.

Uno smarrimento ben presente anche in Australia. Il Premier Turnbull si è affrettato a complimentarsi telefonicamente  col neo eletto presidente. In modo perfino irrituale: ha ottenuto il numero di cellulare personale di Trump dal campione di golf Greg Norman, suo amico personale. Ma al di là del rituale saluto, le perplessità abbondano anche qui. Il direttore accademico del National Security College Matthew Sussex  ha definito Trump un “Black Elephant”, un pericoloso incrocio tra il “cigno nero” di Taleb e “the elephant in the room”, il soggetto ingombrante che tutti fingono di non  vedere, ma occupa visibilmente la stanza, la discussione. Un evento inatteso dall’establishment occidentale e dal resto del mondo  e col quale occorrerà fare i conti.

Da parte Laburista si registrano le dichiarazioni della senatrice Penny Wong e dell’ex Premier Paul Keating, che hanno rilanciato l’idea, serpeggiante nell’establishment australiano da decenni, della necessità di una politica estera più indipendente da quella americana. Keating ha esplicitamente parlato di “tagliare il cordone ombelicale” con l’America.

Ovviamente la questione non è così semplice: Australia (e Nuova Zelanda) hanno un patto di alleanza militare con gli USA dal 1951. Un’alleanza solida, storica e in rafforzamento. Gli USA hanno basi militari nel Nord del continente e vi stanno pesantemente investendo. L’Australia  fa parte del sistema di alleanze americane che nel Pacifico hanno sempre più una funzione di contenimento rispetto all’emergente potenza del dragone cinese.

Sicuramente la contesa strategica tra le due superpotenze porrà scelte difficili all’Australia. Ne parla con grande preoccupazione, in un incontro a Melbourne organizzato da La Trobe Asia, il Prof. Hugh White della Australian National University, autore del fortunato “The China Choice”.  La Cina è il principale partner commerciale dell’Australia, i due paesi hanno raggiunto pure un accordo di libero scambio (ChAFTA) giusto un anno fa. Cosa succederà se Trump chiederà un maggiore impegno navale per il contenimento delle pretese territoriali cinesi? Come reagiranno i Cinesi e gli altri player della regione? Il grande dilemma per gli Australiani è proprio questo: hanno impostato da decenni la loro politica estera sul legame con Washington, ma la loro economia oggi dipende assai di più da quella cinese che da quella americana.

In Europa si è parlato molto dell’impatto della vittoria di Trump sulla vicenda Ucraina e sulla guerra Siriana, dove il futuro presidente ha fatto intendere di voler raggiungere un qualche tipo di accordo con la Russia di Putin. Ma l’orso russo, comunque la si pensi, è una potenza ingombrante ma in oggettivo declino, economico e demografico.

Il colosso Cinese invece è il vero competitor strategico di Washington. Un competitor deciso a conquistare l’egemonia proprio nel suo estero vicino, qui nel pacifico. Gli effetti della sua implacabile ascesa già si avvertono: il nuovo caudillo filippino Rodrigo Duterte flirta apertamente con Xi Jinping, mandando letteralmente a quel paese lo storico protettore americano. Malesia e Singapore mandano invece segnali a dir poco ambigui. Chi sarà effettivamente pronto a unirsi ad un’America più nazionalista, più assertiva nel pattugliamento dell’acque nel mar cinese meridionale ? E a quali costi ?

Il punto più caldo del mondo è senza dubbio questo e tutti gli attori regionali lo sanno benissimo. Se la nuova amministrazione americana non manderà segnali chiari, sia agli amici che agli avversari, il minimo che potrà succedere  sarà una regionale corsa agli armamenti.  Sicuramente la spesa militare dovrà crescere anche per Canberra, non solo in Europa. Non tanto per le esplicite richieste della nuova amministrazione Americana, ma per l’oggettiva incertezza sul futuro ruolo di gendarme globale che probabilmente Washington non vuole e non può più svolgere.

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