Asia

Lassù, tra l’Elefante ed il Dragone, c’è Trump

24 Giugno 2020

Non è affatto geo politicamente immobile né tanto meno ovattato questo tempo di pandemia. Lo si osserva a partire da uno dei teatri da sempre più surriscaldati, e che proprio in questi giorni sta prendendo fuoco sotto gli occhi quasi indifferenti della collettività planetaria, disposta ad etichettarlo ancora una volta sotto le categorie della guerra di religione o di civiltà.

Siamo sulla linea di confine che divide il Ladakh, regione indiana incastonata tra le vette del Karakorum e dell’Himalaya, dalla Cina popolare.

E’ proprio su queste terre che il 15 giugno scorso si è riacceso lo scontro diretto più caldo da 45 anni a questa parte, dopo settimane di tensione volontariamente non sopita sui 3440 km di frontiera che separano i due giganti asiatici. Alcuni manifestanti indiani hanno dato fuoco alle immagini del presidente cinese Xi Jinping, accendendo una rivolta che ha contato morti e feriti nell’esercito indiano. Questo, secondo le fonti più accreditate, come azione compiuta a seguito dell’accusa mossa all’India da parte del Ministro degli Esteri cinese Zhao Lijan di violazione di un precedente accordo diplomatico. New Delhi, dal canto suo, punta l’indica accusatore contro l’invio già nei mesi scorsi, a partire dalla terza settimana di aprile, di oltre 5000 soldati dell’esercito popolare di liberazione (PLA) a controllare la valle di Galwan, nel Ladakh, occupando 38 mila km del territorio indiano.

Quali che siano le motivazioni scatenanti della rivolta del 15 giugno, di certo, gli scontri, che hanno contato morti, feriti e dispersi, stanno avvenendo senza grande clamore mediatico, ma certamente non con la distrazione degli Stati Uniti, il cui Presidente Trump da tempo coltiva rapporti con il premier nazionalista indiano Narendra Modi, mentre si impegna a deteriorare le relazioni economiche e politiche con la Cina.

L’invito di Trump rivolto all’India, alla Corea del Sud e all’Australia di partecipazione al G7 previsto per settembre negli USA è sintomatico e Washington ha dichiarato nelle scorse ore attraverso il suo portavoce di seguire ‘da vicino’ le tensioni tra India e Cina, formalizzando le condoglianze alle famiglie dei militari indiani uccisi in Ladakh.

Secondo gli analisti, il presidente cinese Xi Jinping non smetterà di digrignare i denti, sia per ragioni geopolitiche che spaziano dal crescente asse indo-americano, sia anche per strategie di sopravvivenza politica tutte interne, a partire dalle tensioni emergenti nel suo stesso partito a causa della gestione della pandemia e della crescente disoccupazione nel Paese, che si aggira ora su indici mai raggiunti, tra i 7-8 milioni di senza lavoro e con una crescente sfiducia nei confronti del ‘sogno cinese’.

Del resto, il montare di un sentimento mondiale anti-cinese riguardo alla questione Covid e l’evidente sorpasso dell’economia statunitense stanno spingendo la Cina ad alzare pericolosamente l’asticella di un nazionalismo a cui necessita una rappresentazione muscolare di visibilità planetaria. Lo si è visto con la gestione dei tumulti di Hong Kong, lo si percepisce dai timori generati dalla rielezione della Presidente indipendentista di Taiwan Tsai Ing-wen e dalla difficoltà di governo delle isole meridionali della Cina.

Nel frattempo, l’India, con il benestare degli Stati Uniti, interessati a capitalizzare a proprio favore l’impasse cinese, sta costruendo proprio in Ladakh una nuova super strada che, secondo gli esperti, condurrebbe ad una zona molto vulnerabile ma al contempo strategicamente perfetta, la quale, secondo Pechino, avvantaggerebbe il veloce trasferimento di merci e forze militari in caso di un reale conflitto tra le due superpotenze economiche, tra il Dragone e l’Elefante.

Allo stato attuale, su entrambi i lati del fronte indo-cinese non c’è alcun accenno a ritirare militari e mezzi, stanziati ormai in una vasta area, tanto vasta quanto non lo è mai stata, che spazia dal lago Pangong alla Valle di Galwan, da Demchok e Daulat Beg Oldie nel lato orientale del Ladakh, fino a raggiungere le zone finora rimaste neutrali dell’Uttarakhand e del Nord Sikkim.

Lassù, sul tetto del mondo, si sta giocando una partita estrema che avrà grandi ripercussioni internazionali, a testimonianza ancora una volta di ciò che la Storia da sempre insegna, ovvero di quanto l’occasione dei disastri spinga a mille le tensioni interne dei Paesi ed agevoli situazioni internazionali in cui i totalitarismi trovano humus adatto a crescere pericolosamente.

 

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