Asia
India vs Indonesia: quando il Melone Muschiato vale più dello Champagne
Il Primo Ministro indiano Narendra Modi e il Presidente indonesiano Joko Widodo, in un incontro a margine del G20 di Osaka di giugno hanno annunciato l’ambizioso obiettivo di raggiungere un volume di interscambio commerciale di 50 miliardi di dollari entro il 2025.
Il governo indiano, però, ha espresso preoccupazione per il proprio deficit commerciale con l’Indonesia e chiede un maggiore grado di apertura al mercato, nei settori automotive e agricolo, da parte della più grande economia del sud-est asiatico. L’Indonesia è, infatti, la casa di 270 milioni di consumatori, l’India, invece ne ha 1,3 miliardi. I due rappresentano circa un quinto della popolazione del nostro pianeta.
Questi numeri non devono ingannarci; ci sarebbero mille “se” e altrettanti “ma” da puntualizzare, soprattutto sul PIL pro capite di questi due giganti asiatici. Eppure, non è un discorso folle paragonare questa contesa commerciale potenziale a quella tra USA e Cina, 330 milioni di abitanti a fronte di 1,4 miliardi. A maggior ragione se si guarda ai tassi e allo storico di crescita dei Paesi che si affacciano sugli oceani Indiano e Pacifico e se si considera il secolo attuale come quello dell’ascesa, o del ritorno, dell’Asia.
Tra i 10 membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), l’Indonesia è il secondo partner commerciale dell’India, dopo Singapore (il dato su Singapore è “distorto” dal fatto che la città-stato è un HUB logistico e finanziario, quindi perno di molteplici triangolazioni), con uno scambio bilaterale di 21 miliardi di dollari l’anno.
In una riunione con il ministro del commercio indonesiano Lukita, l’omologo indiano Goyal, ha pubblicamente osservato che la bilancia commerciale era fortemente favorevole all’Indonesia e ha auspicato che i due paesi lavorassero per stabilire dinamiche commerciali più sostenibili, diversificando il mix di esportazioni e importazioni.
Goyal ha fatto riferimento alle restrizioni che l’Indonesia pone alle importazioni di unità già assemblate dai settori automobilistico e autoindustriale indiani. L’India, infatti, è il quarto produttore al mondo di automobili. Nuova Delhi è non solo il Paese del gigante Tata Group – che contemporaneamente ha lanciato una linea di auto da 1470 euro e acquisito i top brand Jaguar e Land Rover – ma ospita anche stabilimenti di Audi, BMW, Fiat, Honda, Hyundai, Mercedes, Nissan, Renault, Toyota e Volkswagen, solo per citare i più noti.
Sono i tempi e le procedure per acquisire le certificazioni per poter circolare che rendono le auto provenienti dall’India meno concorrenziali, rispetto a quelle che arrivano da altri Paesi che hanno degli accordi di libero scambio con Jakarta più favorevoli o più moderni. In questo caso, dunque, si tratta di barriere non tariffarie.
Ma anche sul fronte dei dazi Goyal ha chiesto trattamenti preferenziali per i prodotti di provenienza indiana. Tra questi la carne di bufala congelata halal, il melone muschiato, la zucca amara e i latticini. Strano non sentire parlare di Prosecco, Champagne, Brie e Parmigiano, ma questo è tutto un altro mondo e ha i numeri per essere preso in seria considerazione.
D’altra parte, l’indonesiano Lukita sta cercando di ottenere una parità di trattamento con le esportazioni malesi per quanto riguarda l’olio di palma raffinato, settore in cui l’Indonesia è il primo produttore al mondo. Circa il 2% dei 1000 miliardi di PIL dell’Indonesia deriva dalle esportazioni di olio di palma.
Entrambi i ministri hanno anche affermato che esiste un potenziale considerevole per espandere il commercio bilaterale nei settori dei prodotti e dei servizi ingegneristici, informatici, farmaceutici, e di quelli legati alle biotecnologie e alla sanità.
Appunto il settore dei servizi rappresenta un terreno su cui i due Paesi avranno molto di cui discutere, soprattutto al livello regionale India-ASEAN. L’India, visto il suo bilinguismo con l’inglese e la crescita dei distretti tecnologici di Chennai e Bangalore è molto forte nei servizi in outsourcing di back office, call center e customer care a distanza. Oggi, in tutto il mondo, soltanto le Filippine, Paese membro dell’ASEAN, hanno performance migliori degli indiani in questo settore, grazie al livello base di alfabetizzazione più alto e alla contemporanea conoscenza diffusa dello spagnolo, oltre che al bilinguismo con l’inglese.
Gli analisti sono scettici sul target di 50 miliardi che Modi e Widodo hanno fissato per il 2025. Inoltre, gli osservatori occidentali leggono molti atteggiamenti di Modi come troppo muscolari e simili allo stile di Trump. La verità è che probabilmente l’obiettivo non verrà raggiunto, ma per poco. La tentazione della cifra tonda in una dichiarazione politica, però, credo sia una vanità perdonabile, soprattutto se pone un obiettivo.
La possibilità che tutto, invece, finisca in uno scontro è molto improbabile. L’immenso ‘Universo Asia’ ha sviluppato nei secoli una maniera sincretica in cui crescere e convivere, inoltre, è sempre più viva la consapevolezza che la storia stia offrendo all’Asia una finestra di rinascita che non va sprecata in schermaglie locali.
Non è un caso che l’area indo-pacifica sia seconda solo all’Unione Europea per numero di trattati e trattative in corso nei settori del commercio e degli investimenti. Questa convergenza di intenti è dimostrata anche dal crescente interesse per la riapertura effettiva dei negoziati commerciali tra UE e ASEAN, che insieme a Giappone, Corea del Sud, Canada, Australia e Nuova Zelanda si propongono come il nuovo polo di creazione delle regole mondiali per un business più sostenibile e giusto. Alla faccia di Trump e aspettando che gli USA e la Gran Bretagna si riprendano dalla sbronza.
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