Asia

In Myanmar è in atto uno scontro generazionale

7 Febbraio 2021

Nell’arena politica del Myanmar si sta disputando una partita tutta generazionale.

E’ da questa prospettiva che sarà necessario, soprattutto per l’Europa, imparare a leggere la questione birmana esplosa con il golpe di alcuni giorni fa.

La vicenda, come tutte le vicende che riguardano questa terra, che ricordo essere lo sbocco sul mare più veloce e possibile per le mire economiche espansionistiche del dragone cinese, è tutt’altro che di facile comprensione per l’Occidente. Ma certamente non può non essere considerata tra le priorità dell’Agenda politica europea, pena ancora una volta il rischio di demandare il tutto alla consueta timidezza interventistica dell’Asean.

Paradossalmente, infatti, il colpo di Stato in Myanmar avviene in una stagione in cui mai come oggi il potere militare che l’ha ordito si trova frammentato da pulsioni interne contrastanti e contraddittorie, scosso da tensioni irrisolte e da una grande e sempre più potente frangia di giovani ufficiali dell’esercito per nulla convinti della necessità di detronizzare la “Lady” Aung San Suu Kyi.

A riprova di questa realtà è la presenza di numerosissimi giovani, appartenenti non soltanto ad etnìe ma anche a ceti sociali differenti, scesi nelle piazze del Paese a manifestare per la liberazione della leader della Lega nazionale per la democrazia.

E’ proprio nelle crepe e nella lotta generazionale per il comando del potere militare birmano che l’Europa dovrebbe cercare le sinergie necessarie per aiutare il Paese ad uscire da questa impasse, sì pericolosa, ma al contempo meno irrisolvibile di quanto possa apparire.

L’Occidente purtroppo ha levato gli occhi da troppo tempo da questa linea d’Asia, anche e soprattutto a livello di investimenti economici, i quali al momento sono prevalentemente di origine asiatica. E va da sé che il denaro tolto da parte dell’Occidente diventa, in realtà fragili come il Myanmar, denaro tolto al comparto sociale e al welfare.

Dal canto suo, l’Asean ha declamato timidi appelli alla calma in ex Birmania, ma non sarà mai disposta a stracciarsi le vesti, ben sapendo che oramai la risposta al conflitto si trova esclusivamente dentro al Paese stesso e che i militari non hanno una visione monolitica riguardo alla gestione del potere.

Il golpe è stato deciso e fortemente voluto dal comandante in capo delle forze militari contro la “Lady” ed è stato scatenato da un errore di calcolo riguardante il consenso che Aung San Suu Kyi avrebbe potuto ottenere dalle elezioni di novembre scorso. Se, infatti, la sua vittoria veniva data per scontata negli ambienti di potere, allo stesso tempo però la netta riuscita della “Lady” ha lasciato sgomenti i vecchi comandi dell’apparato militare. Quegli stessi, ricordiamocelo, che Aung San Suu Kyi conosce molto bene, essendo lei stessa figlia di un importante militare che ebbe un ruolo decisivo e fu assassinato alla vigilia dell’Indipendenza.

L’occasione del golpe è stata, più precisamente, la denuncia di sospetti brogli elettorali commessi dalla Lega nazionale per la democrazia, e la conseguente richiesta mai accolta di istituire una Commissione d’inchiesta sulle elezioni di novembre.

Già allora i generali dell’esercito avevano annunciato al mondo il loro intervento con la forza, ma alla minaccia che ha fatto seguito alla mancata creazione della Commissione d’inchiesta la comunità internazionale non aveva in alcun modo creduto.

Mentre la Cina, con la sua consueta realpolitik necessaria a cautelare i propri affari, aveva lasciato correre, così come, del resto, ha poi fatto anche a seguito del colpo di Stato, limitandosi ad augurare maggiore stabilità a qualunque governo birmano.

In questa fotografia continua ad essere la parte più giovane dell’esercito a non vedere la necessità di un colpo di Stato che inasprisca i sentimenti della popolazione nei confronti del potere militare. Di una popolazione che non è poi così disposta a perdere la “Lady”.

L’appello che i comparti più giovani dell’esercito stanno dunque lanciando a fianco della popolazione birmana è molto chiaro, ed è un accorato “aiutateci a liberarci dei vecchi”, anche se ovviamente in questa attuale e complicata situazione bisognerà seguire passo a passo l’evolversi del tutto.

Ricordandoci però che le vicende in quella parte di Asia vanno sempre lette con uno sguardo che dovrebbe essere il meno occidentale possibile. Intanto perché la nostra Storia da quelle parti non è stata dimenticata, ma anche e soprattutto perché le nostre categorie culturali non possono in alcun modo trovare applicazione e risoluzione.

Ovunque, in Myanmar, appare la scritta che recita << L’esercito è il padre e la madre di ogni birmano >>. Nella coscienza dell’opinione pubblica birmana l’esercito è la base fondamentale da cui partire. Lo è anche per la stessa Aung San Suu Kyi, non va dimenticato.

Ciò che i vecchi militari ora al comando potrebbero cercare di fare, per garantirsi una parvenza di immagine volta all’accelerazione della transizione democratica e togliersi di dosso le accuse mosse nelle piazze, è inserire nel governo una rappresentanza di gruppi delle minoranze etniche che erano rimaste fuori dalla politica compiuta dalla “Lady”. Ma scordiamoci totalmente che vengano inseriti i gruppi più fragili. Perché come non lo fece Aung San Suu Kyi per non scontentare l’opinione pubblica, tantomeno lo faranno i militari.

Ma anche questa è una vicenda estremamente complicata, perché se è vero che passa attraverso gli orrori del genocidio sui Rohingya, vero è anche che il sentimento della popolazione birmana verso questo gruppo etnico è di disprezzo e di contrasto e che agli occhi purtroppo della cittadinanza birmana e dell’esercito tutto (giovani e anziani compatti, stavolta) con ragioni da noi inaccettabili, non ci dovrà mai essere spazio per chi soffre di più.

Per questo motivo la presa di posizione dell’Occidente, degli Stati Uniti e dell’Europa in particolare, dovrà tenere in equilibrio due battaglie politiche e strategiche differenti: da un lato la ricerca di fessure nei gangli dell’esercito militare ed il tentativo di dialogo con le sezioni militari più giovani e dall’altro l’altrettanto urgente e necessaria presa di coscienza e mobilitazione per la salvaguardia dei diritti umanitari a partire dalle minoranze etniche che non hanno mai cessato di subire un Paese perennemente in stato di guerra anche quando appare in stato di quiete.

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