Asia
Il presidio bancario italiano lungo la nuova Via della seta
Settecentocinquant’anni dopo Marco Polo (anno più anno meno), Europa e Asia stanno esplorando la nuova Via della seta. L’obiettivo è sempre quello di fare affari, ma stavolta la lingua ufficiale non è quella veneziana con la quale fu scritto il Milione: il nome della missione è invece l’acronimo inglese OBOR, ovvero One belt, One road (una cintura, una strada). E il progetto stavolta, all’opposto di quanto accaduto intorno al 1271, parte invece dalla Cina: voluto fortemente dal governo di Pechino per promuovere la connessione tra la Cina e il continente eurasiatico, OBOR ha le sembianze di un “piano Marshall orientale”, tramite il quale il gigante asiatico vuole investire nell’area che lo collega all’Europa un totale di 1,4 trilioni di dollari in infrastrutture utili allo sviluppo dei commerci e interventi finanziari, stimando di ricavarne benefici di crescita in 2,5 trilioni di dollari l’anno.
Una sfida ambiziosa per un Paese che ha sì smesso di crescere a doppia cifra, ma che a parità di potere d’acquisto detiene una quota del Pil mondiale pari al 17,1% nel 2015, ergendosi sempre di più a prima potenza economica planetaria dopo aver sorpassato l’area euro nel 2011 e gli Stati Uniti nel 2014. Partono dalla Cina infatti l’11,4% delle esportazioni globali (l’intera eurozona fa 25%), molte delle quali saranno ora indirizzate, insieme agli investimenti, nei 65 Paesi dell’area eurasiatica che fanno parte di questa nuova Via della seta.
Un treno importante al quale agganciarsi anche per l’Italia, e che vede anche nella Russia un Paese chiave. Con Mosca e con i Paesi dell’ex Urss i rapporti commerciali ci sono ma hanno perso linfa: «Da un punto di vista dei flussi commerciali – osserva Gianluca Salsecci, economista capo del team di ricerca internazionale di Intesa Sanpaolo – nel 2015 l’Italia ha scambiato con i paesi della UEEA-Unione economica Eurasiatica [cioè, Russia, Bielorussa, Kazakistan, Armenia, Kirghizistan, ndr], circa 25 miliardi di euro, in calo di oltre il 18% sul 2014». Di questa cifra l’export italiano è di soli 8,4 miliardi di euro. Hanno influito diversi fattori, ha spiegato l’esperto: dal calo dei prezzi dell’energia alla debolezza del ciclo economico in Italia, ma anche la recessione in Russia e gli effetti delle sanzioni e contro-sanzioni introdotte nel 2014. E non è un caso che negli ultimi cinque anni il commercio russo con l’intera Unione europea (valutato in dollari) sia calato da 278 miliardi nel 2010 a 202 miliardi nel 2015 (-27,2%), con un picco di -50% nel 2013, mentre quello con la Cina è cresciuto passando da 58,8 a 63,5 miliardi di dollari (+8% circa).
Una delle porte d’accesso che porta a Est e agli investimenti cinesi è l’Europa orientale. E su quest’area scommette Intesa Sanpaolo, che ha intensificato la sua presenza sulla rotta balcanica e non solo in Russia e in Cina, dove proprio di recente, a settembre, ha costituito “Yi Tsai” (“Talento italiano”), società di wealth management dedicata a clientela di alto profilo basata a Qingdao, importante centro finanziario a Nord di Pechino. La nuova via della seta bancaria parte però molto più vicino all’Italia, proprio a poche centinaia di chilometri da dove iniziò l’avventura di Marco Polo, nei Paesi dell’ex Jugoslavia.
Protagonista del progetto è la Divisione Banche Estere di Intesa Sanpaolo, che negli ultimi anni è arrivata a presidiare nell’area 11 Paesi attraverso 1.079 sportelli, 23mila dipendenti e 7,7 milioni di clienti, ovvero il 41% di quelli dell’intero gruppo. «Il risultato operativo netto della divisione Banche Estere quest’anno è quasi raddoppiato rispetto ai primi 9 mesi del 2015, raggiungendo i 578 milioni di euro: la performance migliore da quanto è stata creata la banca, nel 2007», racconta Ignacio Jaquotot, responsabile della divisione che rappresenta da sola quasi un quarto dell’utile netto di Intesa nei primi nove mesi del 2016 e che controlla il 100% di “Yi Tsai”, punto di partenza della sfida della banca nel Catai, come veniva chiamata la Cina al tempo di Marco Polo.
Ignacio Jaquotot
L’Europa orientale, oltre al vantaggio di crescere più velocemente rispetto alla zona euro, diventa dunque lo sbocco verso i paesi della (nuova) via della seta: un’area, quella che unisce l’Europa all’Asia, dove vive il 70% della popolazione mondiale, si produce il 55% del Pil globale, e si trova il 75% delle riserve energetiche conosciute. «Siamo leader di mercato in Slovacchia, Serbia e Croazia – spiega Jaquotot -, dove abbiamo recentemente rafforzato la Privredna Banka Zagreb». Senza dimenticare la presenza in Bosnia, Ungheria, Slovenia, Albania, Romania e poi Egitto e Russia, per un totale di attivi di 44,6 miliardi di euro e dove la seconda banca italiana per dimensioni ha intenzione di mettere a disposizione fino a 1 miliardo di finanziamenti per le imprese locali, oltre a fornire supporto a quelle italiane che vanno lì ad investire, attraverso gli appositi “Italian Desk”.
«Favoriamo l’accesso al credito alle piccole medie imprese in un’area dove il rapporto tra il livello dei crediti bancari e del Pil è ancora sotto il 100%», spiega Jaquotot. Non solo: le controllate o partecipate di Intesa Sanpaolo si occupano anche di vendere prodotti e servizi finanziari, di partecipare a programmi di finanziamento Ue e di stringere collaborazioni con istituzioni e associazioni locali. Il commercial banking, che in Europa occidentale arranca, torna ad essere il core business: «Come è facile immaginare – dice il responsabile della divisione – ‘fare banca’ in un contesto di tassi negativi è piuttosto arduo. Ma nei Paesi dove siamo presenti sfruttiamo un contesto macroeconomico favorevole, grazie a una ripresa che lì è più accelerata rispetto all’eurozona e che sfrutta anche gli investimenti cinese nell’area limitrofa».
Il quadro economico, soprattutto dell’area balcanica, parla di crescite a doppia cifra della produzione industriale, di cittadini che lavorano e consumano di più, e soprattutto di un’attività bancaria in grande salute, dai prestiti ai mutui e fino ai depositi. Uno dei casi più emblematici, solo per citare un esempio, è quello della Slovacchia, Paese di riferimento per Intesa Sanpaolo, dove la controllata Vùb Banka ha 231 filiali e attivi per 12,6 miliardi di euro. L’industria è cresciuta ad agosto (ultimo dato disponibile, diffuso dalla Banca centrale slovacca) del 17%, l’export del 17,9% su base annua e l’indicatore di fiducia economica è in crescita costante da giugno, sopra i 100 punti. In questo clima aumentano i prestiti: +9,7% anno su anno, performance trainata principalmente dal segmento retail, che è cresciuto del 13,3% su base annua in particolare grazie ai mutui per la casa (14,7% su base annua). Anche i depositi hanno continuato a crescere, con un super aumento di quasi il 20% su base annua.
L’obiettivo finale resta però la Cina, dove Intesa Sanpaolo è presente anche attraverso la partecipazione del 15% in Bank of Qingdao. Agganciarsi a OBOR significa dunque rientrare in un piano d’azione degno di una partita a risiko, con sei principali corridoi economici di terra e di mare già individuati che coinvolgono anche il Sud-Est asiatico. Un piano lento ma inesorabile che vedrà la sua concretizzazione in tempi molto lunghi, presumibilmente – stando ai progetti di Pechino – nel 2049. In tempo per celebrare il centenario della Repubblica Popolare Cinese.
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