Asia
Hong Kong, le proteste continuano e Pechino minaccia il giro di vite
Quando Hong Kong passò sotto il controllo della Cina, nel 1997, probabilmente gli ex governatori britannici non pensavano che un giorno, in questa metropoli abbracciata dal Mar Cinese Meridionale, sarebbe esplosa la rivolta. Eppure, quella iniziata due mesi fa con manifestazioni pacifiche, è ormai una crisi che rischia di raggiungere il punto di non ritorno.
I manifestanti occupano l’aeroporto internazionale di Hong Kong, il Chek Lap Kok, ormai da cinque giorni consecutivi. Cercando di dare visibilità globale alle loro richieste di riforme democratiche, e mandando completamente in tilt i voli in partenza dall’ottavo scalo del mondo. Ieri ci sono stati scontri fra la polizia e i manifestanti, e la tensione è alle stelle.
La Cina ha alzato i toni lunedì, dicendo che le proteste antigovernative cominciano a mostrare “germogli di terrorismo”. Una dichiarazione che ha indotto molti a credere che Pechino sia pronta a un giro di vite. Poche ore dopo il capo esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, si è rivolta ai manifestanti. “Guardate la nostra città, la nostra casa – ha chiesto –. Possiamo sopportare di spingerla nell’abisso e di vederla fatta a pezzi?”
Mentre i tabelloni delle partenze dal Chek Lap Kok mostrano file e file di voli cancellati, e i passeggeri affollano i desk delle linee aeree, gli occhi del mondo sono puntati su quella che, secondo il Global financial centres index, è la terza piazza finanziaria del pianeta.
All’appello dell’Onu, che ha esortato le autorità di Hong Kong ad agire con moderazione e a garantire che le forze dell’ordine reagiscano a qualsiasi episodio violento nel rispetto delle norme internazionali sull’uso della forza, Pechino ha risposto che si tratta di commenti che mandano un segnale sbagliato a dei “violenti criminali”. E nelle ultime ore la Cina avrebbe cominciato a spostare delle truppe al confine con Hong Kong, secondo il presidente americano Donald Trump, che in un tweet ha invitato “tutti” alla calma.
Ai primi di giugno i manifestanti erano scesi in piazza per protestare contro una legge (poi sospesa) che avrebbe reso possibile l’estradizione degli hongkonghesi nella Cina continentale, dove i tribunali subiscono un forte controllo dal potere centrale. L’anticamera, secondo gli oppositori, di un’imminente normalizzazione da parte di Pechino. Con la perdita dei diritti civili di cui godono gli abitanti di Hong Kong. È la politica “un paese due sistemi”: al cuore dell’accordo con cui Londra riconsegnò la metropoli a Pechino.
Per porre fine alle proteste, i manifestanti chiedono il ritiro ufficiale della legge sull’estradizione; il rilascio incondizionato delle persone arrestate durante le manifestazioni; che il governo smetta di definire le proteste “sommosse”; un’inchiesta indipendente sul comportamento della polizia; e l’introduzione di un suffragio universale vero e proprio (ossia il diritto di eleggere i leader di Hong Kong attraverso elezioni generali, senza alcuna ingerenza da parte del governo centrale cinese).
Intanto ieri la Borsa di Hong Kong ha registrato il peggior picco negativo da sei mesi a questa parte. E molti esperti definiscono “catastrofiche” le potenziali conseguenze di un’instabilità prolungata: fughe di capitali, tracollo degli investimenti e trasferimenti di multinazionali e grandi aziende altrove, magari a Taiwan o Singapore.
La Cina accusa gli Stati Uniti (e il Regno Unito) di interferire nella crisi. Ma è difficile credere che l’Occidente anglosassone possa essere riuscito a spingere milioni di hongkonghesi a scendere in piazza o a protestare sui social media. Certamente però, la situazione va vista alla luce della crescente rivalità tra gli Stati Uniti e la Cina. È la nuova guerra fredda, e senz’altro non finisce qui.
Immagine in copertina: Pixabay
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