Asia

Daniele Bosio: “L’inferno del carcere filippino è passato, torno al lavoro”

10 Dicembre 2015

Gli Stati generali mi richiedono un contributo che ripercorra la mia vita negli ultimi 20 mesi. La definizione, l’hanno già data alcuni giornali: un viaggio all’inferno, per fortuna, andata e ritorno.

L’inferno, appunto, si è materializzato nell’aprile dello scorso con l’arresto a Manila; lì sono iniziati i giorni peggiori, per la precisione 50 giorni e 50 notti trascorsi in una squallida cella di 28 metri quadri con altre 80 persone, senza possibilità di movimento, senza vedere la luce del sole, a temperature vicine ai 40 gradi con umidità tropicale. Si dormiva accatastati, chi per terra, chi su tre livelli sovrapposti di tavolacci di legno. Condizioni igieniche estreme: poca acqua per lavarsi acqua, promiscuità totale con persone affette da malattie gravi, inclusa la tubercolosi, con pidocchi e infezioni della pelle, mangiando solo riso e verdure, con un minuscolo gabinetto e una bottiglia forata da passarsi di mano in mano per l’urina. Nella cella con me c’erano mafiosi, violentatori, assassini, spacciatori, trafficanti di droga: un’esperienza talmente incredibile da non sembrare vera. Ricordo un uomo accusato di truffa, trasformatosi in carcere in predicatore, che ci regalava sei ore di sermone al giorno e che raccoglieva povere donazioni dai suoi “discepoli” compagni di cella. O lo spacciatore che aspettava una condanna a almeno 15 anni e che comunque sognava di acquistare una fattoria in campagna dove allevare maiali e dove mi aveva invitato ad andare. Ricordo anche una violentissima rissa tra due detenuti scoppiata nel mezzo della notte in quei pochissimi metri quadrati per non so quale motivo.

Devo la vita a mio fratello: se non fosse stato lì con me, sarei stato un uomo finito. Erano giorni di sconforto permanente: ero isolato, rinchiuso. Non capivo nulla di quello che si diceva intorno a me; per me la vita ha un valore incommensurabile, ma confesso che a volte ho pensato che sarebbe stato meglio essere investito da un’auto.

Essere diplomatico non mi ha favorito. Al contrario, mi ha danneggiato: chi mi ha denunciato ha usato la mia posizione per guadagnare notorietà e farsi pubblicità alle mie spalle. Dopo aver ottenuto la libertà su cauzione a luglio del 2014 perché le prove a mio carico erano deboli, le attiviste della ONG che mi ha denunciato hanno provato a farmi arrestare una seconda volta, accusandomi di oltraggio alla corte perché non partecipavo alle udienze. Ma il mandato era illegittimo e nulla mi imponeva quell’obbligo. Lavorammo un’intera angosciosa notte con il mio avvocato su un ricorso immediato per far ritirare la decisione. Ci riuscimmo, ma ricordo ancora il terrore di dover rientrare in quella cella e forse non uscirne più.

La sentenza della corte filippina è stata la fine di un incubo: non solo perché ha messo fine a questa sofferenza ma soprattutto per le motivazioni addotte alla decisione. La corte ha riconosciuto che esistono ancora “semi di bontà innata nel mondo” e “persone di buon cuore disposte ad aiutare i meno fortunati nella società”. Parole che credo abbiamo raccolto il messaggio che portavo con me e che spero potranno porre rimedio al massacro mediatico che ho subito, fatto di illazioni, falsità e cattiverie.

E ora? Ora vorrei ricominciare a fare il mio lavoro, quello di ambasciatore. Ora riprendo in mano la mia vita, il filo del discorso della mia esistenza, smarrito in questi mesi drammatici.

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