Asia

Cina, India o Pakistan. Chi prenderà l’eredità del Maharaja del Kashmir?

13 Agosto 2019

Minoranze indù, musulmane e buddiste, tre arsenali nucleari e affari per miliardi di dollari. L’India revoca lo “status speciale” alla porzione di Kashmir che controlla dal 1949, il Pakistan, potenza musulmana dell’Asia meridionale, protesta e si rivolge alla Cina, in nome degli enormi interessi economici nel China-Pakistan Economic Corridor.

Dal 5 agosto l’India ha radicalmente modificato le sue politiche verso il Kashmir, stato indiano a maggioranza musulmana, oggetto di un’antica disputa territoriale con il Pakistan. Prima ha revocato l’articolo 370 della costituzione che garantiva al Kashmir uno “status speciale”, che dava molta autonomia al governo locale; poi ha diviso il Kashmir in due stati, uno che continuerà a chiamarsi Jammu e Kashmir (il nome formale del Kashmir) e che avrà un parlamento statale, l’altro chiamato Ladakh, che non avrà un parlamento.

Il governo indiano, guidato dal primo ministro nazionalista indù e conservatore Narendra Modi, ha descritto i due provvedimenti come accorgimenti amministrativi e di riorganizzazione territoriale; i critici hanno parlato di un attacco all’identità secolare e federale dell’India, con un tentativo di trasformare l’India in uno stato più omogeneamente indù.

Quando l’India divenne indipendente dalla Gran Bretagna, il 15 agosto 1947, il Kashmir non faceva parte ne dell’India, ne tantomeno del Pakistan, era uno stato principesco, a maggioranza musulmana, sotto il Maharaja indù Hari Singh. La questione prese una piega e poi venne risolta in modo drammatico quando il Pakistan inviò dei razziatori, sostenuti dal proprio esercito, per attaccare e prendere il Kashmir. Fu la popolazione musulmana della valle del Kashmir a combatterli; le forze dell’esercito indiano arrivarono a supporto solo in seguito. Fu dopo la sconfitta definitiva dei razziatori che il Maharaja firmò l’accordo che prevedeva l’accesso alla federazione indiana e l’autonomia dello Stato del Kashmir, garantita dall’articolo 370 della costituzione di Nuova Dehli.

La storica regione del Kashmir, più grande dell’originario possedimento del Maharaja, oggi è controllata nella sua porzione sudorientale dall’India, in quella nordoccidentale dal Pakistan e una piccola parte a nord est, a maggioranza buddista dalla Cina. Sia l’India che il Pakistan rivendicano i territori posseduti dall’altro contendente, mentre non è in discussione la parte cinese.

Il 9 agosto di quest’anno, dopo la revoca dell’articolo 370, il ministro degli esteri pakistano Shah Mehmood Qureshi è volato direttamente a Pechino per cercare il supporto del governo cinese per contrastare la mossa indiana di ‘induizzare’ la propria porzione di Kashmir e quindi rendere de facto immutabile la divisione del 1949.

La Cina ha diversi motivi per allarmarsi per gli eventi in Kashmir, in particolare la creazione di una nuova zona amministrativa per il Ladakh vicino al confine cinese. La regione ha un numero considerevole di buddisti, la cui presenza al confine cinese rafforzerà il sostegno dell’India alla comunità buddista. Per i cinesi, la presenza di un’altra area buddista al loro confine da forza vitale ai buddisti tibetani guidati dal Dalai Lama, una forza dichiaratamente anti-Pechino che è stata ospitata per decenni dall’India.

A catena, il risveglio di una minoranza etnica o religiosa, fornirebbe un assist a tutte le altre, in primis a una storica spina nel fianco dei cinesi, gli Uiguri musulmani dello Xinjiang.

L’altra preoccupazione della Cina riguarda la sicurezza degli investimenti, già effettuati e in programma, nell’ambito del corridoio economico sino-pakistano. La rotta del  China Pakistan Economic Corridor (CPEC) mira a collegare la Cina occidentale con il porto di Gwadar, nel sud del Pakistan. Gwadar, infatti, rappresenta la porta più veloce per fare arrivare le merci cinesi, via mare, ai paesi del Golfo Persico/Arabico e in Europa.

La Cina prevede di spendere più di 60 miliardi di dollari in progetti legati al CPEC in Pakistan. Si tratta dunque di una questione altamente strategica sia per la Cina, che compete sui mercati globali, che per il Pakistan, che ristruttura il suo sistema infrastrutturale e diventa un nodo fondamentale per le catene globali del valore.

Un Kashmir instabile è inconciliabile con progetti di questa portata. Il tradizionale pragmatismo asiatico non dovrebbe porci dubbi sul fatto che la questione non si risolverà, semplicemente tornerà a sonnecchiare, come ha fatto per la maggior parte degli ultimi 70 anni.

Resta un unico punto interrogativo: il primo ministro indiano Modi sceglierà di giocare nell’ambito delle regole della connectography e della business diplomacy, come il cinese Xi Jinping? O sceglierà un cattivo maestro come Trump e quello stile con cui una certa parte dell’Occidente ha già perso tanto del suo capitale reputazionale?

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