Asia
Cina e Filippine, finché c’è commercio c’è speranza
La Marina filippina si appresta a prendere in consegna parte del cantiere della Hanjin Heavy Industries a Subic Bay per sostenere la ripresa del porto, colpito dalla bancarotta del colosso navale coreano, e assicurarsi che sia tenuto fuori dalle mire della Cina. Senza dirlo a parole, ma con i fatti.
La Hanjin aveva investito $ 2,3 miliardi per realizzare un cantiere navale di 300 ettari a partire dal 2004, diventando il più grande investitore straniero nella Subic Bay Freeport Zone, una zona economica speciale nell’isola di Luzon, nelle Filippine.
Il cantiere navale ha varato 123 navi fino al 2018, facendo delle Filippine uno dei maggiori produttori al mondo del settore. Inoltre la Hajin, impiegando nei periodi più floridi oltre 30.000 lavoratori – prima di tagliare il personale a poche centinaia di operai – era uno dei maggiori datori di lavoro privati di tutto il Paese.
La scelta di costruire un enorme cantiere navale nella provincia di Zambales, appunto sull’isola di Luzon, nasce dalla volontà di approfittare sia del basso costo del lavoro locale che delle generose condizioni finanziarie e fiscali offerte agli investitori privati nella Subic Bay Freeport Zone.
Nonostante ciò, a gennaio 2019, Hanjin Philippines ha presentato domanda di “riabilitazione aziendale” (equivalente a un ‘bancarotta controllata’) a seguito di un inadempimento di $ 412 milioni di prestiti dovuti a un consorzio di cinque banche filippine. Il debito dell’azienda comprendeva, però, anche $ 900 milioni dovuti a delle banche coreane e il destino di quel debito rimane poco chiaro.
Il caso del gigante navale coreano è di gran lunga il più grande default aziendale nella storia filippina.
Subic Bay è situata di fronte alle coste del Vietnam e, insieme a Hong Kong e all’isola di Tapei, rappresenta la porta d’ingresso del Mar Cinese Meridionale. Vista la posizione strategica, la baia era originariamente stata una importante base militare costruita dagli spagnoli nel 1885 e dismessa dagli americani nel 1992.
Estendendosi dalla Cina, a nord, fino all’Indonesia, a sud, il Mar Cinese Meridionale è la terza porzione di mare più grande al mondo – esclusi i 5 oceani – e trasporta circa un terzo di tutte le spedizioni globali, con un valore stimato di $ 3,37 trilioni annui. L’isola di Luzon e la Baia di Subic sono quindi estremamente importanti sia dal punto di vista militare, sia da quello commerciale.
La bancarotta della Hanjin ha quindi innescato la ricerca di investitori che potessero dare nuova linfa alla zona economica speciale del porto. Ma mentre diverse aziende straniere, da USA, Giappone e Australia, hanno dichiarato il loro interesse all’acquisizione della struttura senza destare preoccupazioni particolari, le offerte di due compagnie cinesi (variamente sostenute dallo stato) hanno innescato la mossa della Marina filippina di prendere una quota diretta nella ex base navale degli Stati Uniti.
Il fatto che la Cina rivendichi oltre l’80% dello specchio d’acqua, anche attraverso la realizzazione di porti e installazioni militari su sette isole artificiali, desta irritazione e preoccupazione da parte delle Filippine, del Vietnam e della Malaysia che condividono rivendicazioni sovrapposte sull’area. Il presupposto legale per le rivendicazioni cinesi è una mappa con nove tratti di penna risalente al 1947, che individua circa tre milioni di chilometri quadrati di oceano che sarebbero storicamente soggetti alla sovranità della Cina fin dai tempi imperiali. La ‘linea dei nove tratti’ estende le acque territoriali cinesi fino a duemila chilometri dalle coste della Repubblica popolare e fino a poche centinaia di chilometri da Filippine, Vietnam e Malesia.
Dopo aver prestato giuramento come presidente nel 2016, Rodrigo Duterte ha abbassato i toni della disputa sul Mar Cinese Meridionale, stringendo legami economici più stretti con Pechino, fino a raggiungere impegni di investimento per decine di miliardi di dollari da parte delle aziende cinesi nelle Filippine.
Ma la mossa della Marina filippina di prendere in consegna parte del cantiere di Hanjin a Subic Bay segue proprio ad un ordine del presidente filippino Rodrigo Duterte, che ha inoltre approvato la raccomandazione del dipartimento della difesa di dichiarare le aree che circondano il cantiere come aree di riserva militare, per la auspicabile futura ripresa ed espansione del cantiere navale.
La marina sta progettando di utilizzare lo spazio per l’attracco e le riparazioni delle navi, ma permetterà alle operazioni commerciali e di costruzione navale di continuare, tra gli sforzi in corso per trovare un nuovo acquirente.
In realtà le Filippine hanno praticamente nazionalizzato un cantiere, mettendolo sotto il controllo e la disponibilità dell’esercito. La sicurezza nazionale è il pretesto usato per questa mossa, che avrebbe potuto essere gestita da un curatore fallimentare o dalla politica.
E’ chiaro che andiamo verso una lunga gestione, nonostante le dichiarazioni pubbliche, da parte del governo e dell’esercito su Subic Bay. Non è neanche da escludere che si arrivi ad una acquisizione de facto.
Le dichiarazioni alla stampa delle banche locali creditrici vanno esattamente in questo senso. Infatti, per i creditori, tutti gli investitori, indipendentemente dalla loro nazionalità, sono i benvenuti, ma la decisione definitiva sul futuro del cantiere è del governo.
Sembra che l’approccio geopolitico abbia in questo caso la meglio su quello prettamente economico, ma non è così. La politica, infatti, reagisce con tanto vigore, utilizzando l’esercito, per tutelare un luogo fisico da cui passano interessi economici. E’ geoeconomia, o connectography, ed è questa la lente per leggere il mondo multipolare di oggi.
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