Asia
A tre anni dal golpe. Dentro la guerra dimenticata del Myanmar
Un giovane dottore, con un camice bianco macchiato di sangue, sta medicando un ragazzo ferito dalle schegge di un mortaio da 120 mm. Gli hanno bucato il fegato e ora lotta tra la vita e la morte. Il suo sguardo è perso. È stremato dal dolore. Sono in un ospedale nascosto tra la fitta vegetazione, nelle montagne vicino alla città di Demoso, nello Stato Karenni (o Kayah), nell’Est del Myanmar, dove vengono continuamente assistite le vittime di un conflitto dimenticato.
La situazione nel Paese si è infuocata tre anni fa, dopo che le forze armate birmane, guidate dal generale Min Aung Hlaing, hanno preso il potere con un colpo di Stato il primo febbraio 2021, mettendo fine alla fragile democrazia nata poco più di un decennio fa. Questo evento ha causato l’inizio di una vera e propria guerra civile, dove oltre alle storiche organizzazioni etniche armate, gruppi più o meno organizzati, molti dei quali formati da giovani inesperti ma determinati, stanno infiammando il Myanmar in nome della libertà.
I Karenni, un’etnia di circa 360 mila persone, in maggioranza di fede cattolica, stanno pagando un prezzo altissimo a causa di questo conflitto, con circa il 75% della popolazione che è stata costretta ad abbandonare le proprie abitazioni.
Nonostante abbiano mantenuto il loro esercito etnico, il Karenni Army (KA), per lo più nascosto negli avamposti della giungla lungo il confine con la Thailandia, hanno vissuto per dieci anni in pace, dopo aver pattuito un cessate il fuoco con i militari nel 2012. Ma ora è tutto cambiato, i guerriglieri sono tornati operativi, e insieme a loro si sono uniti migliaia di giovani del People’s Defence Force (PDF), il gruppo armato del National Unity Government (NUG), il governo ombra che si è instaurato dopo il golpe per contrastare i militari al potere e che collabora con le diverse organizzazioni etniche armate in tutto il Paese con l’obiettivo di costituire in futuro uno Stato federale.
L’unico modo per documentare il loro dramma, in una delle regioni più attive nel combattere il Tatmadaw – l’esercito birmano -, è farlo illegalmente. La giunta al potere, infatti, non permette ai giornalisti e alle organizzazioni umanitarie di entrare in Myanmar. Non ci sono strade e per arrivare all’interno bisogna camminare per quattro giorni nella foresta, marciare su piccoli sentieri improvvisati su e giù per le montagne, seguire impervi corsi d’acqua ed infine attraversare l’imponente fiume Salween.
«Ci siamo quasi, questo è l’ultimo giorno di cammino e poi saremo arrivati», dice Ooreh, un comandante del KA sulla quarantina d’anni, che mi accompagna durante il viaggio. Man mano che ci avviciniamo, si iniziano a sentire esplosioni sempre più forti. «Sono i colpi di mortaio da 120 mm che sparano in continuazione contro i nostri villaggi», mi spiega.
Dopo aver attraversato l’ennesimo fiumiciattolo con una piccola barca di legno, ad aspettarci c’è il comandante Ridu, responsabile della zona del Karenni Nationalities Defence Force (KNDF), un gruppo armato composto da circa 6 mila uomini nato recentemente e sotto il controllo del KA.
Con alcuni pick-up percorriamo il primo tratto di strada sterrata, di una terra color rosso sangue, come quello che stanno versando i Karenni per conquistare la loro libertà e quella di tutto il popolo del Myanmar. Poi l’asfalto e le prime costruzioni di case in cemento. Sono dentro, all’interno del Paese, nel cuore dello Stato Kayah.
Il cielo è cupo, triste. La pioggia non smette di cadere da giorni, in questa stagione dei monsoni che sembra non voler finire. Come a voler continuare a versare lacrime per l’ennesima morte causata da questo conflitto quasi sconosciuto. La guerra è così. Fatta di dolore e sangue. Morte e distruzione.
Lo sanno bene i familiari di Twuemua, 45 anni, volontario PDF di Demoso, rimasto senza vita a causa delle schegge di un mortaio birmano che non gli hanno lasciato scampo, mentre assistono al suo funerale. I volti della mamma e della moglie sono fissi su quella bara che presto verrà sotterrata, insieme ad altre migliaia di persone che sono morte in questi due anni. E che sognavano un Paese libero dall’oppressione dei generali. Ma la guerra è fatta anche di speranza e coraggio di chi vuole raggiungere ad ogni costo il proprio obiettivo.
«La vittoria sarà nostra, combatteremo per la libertà, per i nostri caduti e per il futuro dei nostri figli», giurano i combattenti prima di dare l’ultimo saluto al loro compagno d’armi.
In questi anni, secondo diverse fonti indipendenti, il conflitto in Myanmar ha provocato almeno 30 mila vittime, decine di migliaia di feriti e più di un milione di sfollati interni, costretti a vivere in condizioni disastrose, con serie difficoltà a reperire cibo, acqua e medicinali. Per l’Unicef, più di 5 milioni di minori hanno bisogno di assistenza umanitaria e 7,8 milioni di adolescenti non hanno istruzione. L’economia del Paese è al collasso, con un tasso di disoccupazione pari al 40 per cento della popolazione.
«Sono scappata dal mio villaggio alla fine del 2021, quando l’esercito birmano ha ucciso 31 civili nella municipalità di Pruso», racconta una giovane donna, responsabile di un campo profughi, che per ragioni di sicurezza vuole rimanere anonima. Si riferisce a quello che viene ricordato come il «massacro di Natale», avvenuto il 24 dicembre, dove sono stati ritrovati i corpi di 31 persone carbonizzate dopo un assalto del Tatmadaw. «Viviamo giorno per giorno. È tutto difficile. Non possiamo lavorare nei campi, non ci sono ospedali nella zona e abbiamo paura di poter essere attaccati in qualsiasi momento. Abbiamo davvero bisogno dell’aiuto della comunità internazionale», aggiunge.
E poi ci sono le vittime delle mine antiuomo, che il Tatmadaw usa incessantemente per colpire indiscriminatamente civili e gruppi armati.
«Stavo andando a raccogliere il riso, quando all’improvviso una mina è saltata», racconta Ma Noi, una donna di trent’anni rimasta senza una gamba. «Spero di riuscire a mettermi una protesi, ma in ogni caso la mia vita non sarà più come prima. Dovrò abituarmi a convivere così», aggiunge mentre abbraccia disperata la sua piccola bambina.
Da febbraio 2021 a settembre 2022, secondo il rapporto Landmine Monitor Report, pubblicato da una serie di organizzazioni umanitarie che fanno parte della Campagna internazionale per la messa al bando delle mine, 157 civili sono stati uccisi e 395 feriti da mine antiuomo e residuati bellici esplosivi in Myanmar. Ma i numeri sono sicuramente più alti, perchè è davvero difficile fare un conto reale.
Nel maggio 2021, poco dopo il colpo di Stato, sono stato più a sud. È proprio in queste zone – dove da oltre settant’anni i ribelli Karen, braccio armato di quella che è la terza etnia del Myanmar, combattono dapprima per l’indipendenza e poi per ottenere un proprio Stato federale che tuteli i loro interessi – che hanno trovato rifugio migliaia di dissidenti birmani, scappati dalle atrocità del Tatmadaw. Molti di loro sono giovanissimi. Hanno lasciato la loro vecchia vita alle spalle per arrivare in questo posto remoto, imparare a combattere e provare a riprendersi la loro libertà.
È ancora buio quando le reclute birmane escono dalle loro capanne di bambù in questo campo segreto al confine con la Thailandia, per radunarsi, fare l’appello e iniziare l’addestramento. Alcuni ragazzi sono in mimetica, altri in maglietta e pantaloncini, le uniche due cose portate via durante la fuga dalle rispettive città per raggiungere i territori controllati dai guerriglieri Karen. «Non abbiamo portato nulla con noi, solo la volontà di combattere i militari birmani», mi ha detto determinato il giovane Theim Then Talin, 24 anni, che arriva da Yangon. E come lui, in migliaia hanno fatto la stessa scelta.
Tutti mi raccontano il terrore vissuto quando ancora stavano nelle città, i loro sogni e le speranze per il futuro. Tra loro c’è Jo Jo, 20 anni, studente di Bago – una città a 80 chilometri a nord est di Yangon, teatro di una violenta repressione dell’esercito – vivo per miracolo. «Guarda qua, i militari mi hanno sparato durante le dimostrazioni, mi hanno colpito mentre cercavo di scappare da loro», spiega alzando la maglia e facendomi vedere le cicatrici causate dai proiettili.
Un anno dopo, nell’aprile 2022, sono tornato nelle stesse zone controllate dai Karen e la situazione era molto più organizzata. Molti dei giovani che si sono addestrati, sono tornati nelle città per combattere, altri sono rimasti con i guerriglieri Karen, partecipando attivamente agli scontri. Altri ancora si sono aggiunti negli ultimi mesi.
In mezzo a un spiazzo circondato dalla vegetazione spicca una ragazza. Cappellino nero in testa, mimetica d’ordinanza, scarponi e un M16 tra le mani. È l’unica donna del gruppo. Anche lei si sta addestrando sotto la guida di alcuni foreign fighters occidentali che da anni portano il loro supporto alla causa dei Karen. Si chiama May Phyu Soe, 37 anni. Arriva da Mandalay e prima di diventare una guerrigliera faceva l’avvocato. Ha lasciato tutto, compreso il marito e una figlia. «Ho sentito il dovere di farlo, non potevo più stare a guardare, dovevo entrare in azione», mi racconta.
«Ho partecipato alle manifestazioni contro il golpe nella mia città sin dall’inizio, ma ho visto subito che quel tipo di proteste non ci avrebbe portato a nulla. Eravamo disarmati contro un esercito che ci sparava ad altezza uomo per ucciderci tutti». «Sono venuta qui per combattere e vincere. Quando avremo sconfitto i militari birmani e tutti saremo liberi, comprese le numerose etnie che compongono il Myanmar, voglio riprendermi la mia vecchia vita e stare con la mia famiglia», mi dice prima di salutarmi.
Ho ritrovato Forty-one, così si fa chiamare questo ragazzo di appena 19 anni, che avevo conosciuto nel 2021 e che ha già partecipato a più combattimenti. Studente universitario, anche lui arriva da Mandalay. «Sono venuto qui per combattere i militari birmani. Durante le manifestazioni hanno sparato ai miei fratelli e ad un mio caro amico», racconta mentre mostra alcune foto delle proteste che ha conservato sul cellulare. «La mia vita era serena, facevo tutto quello che facevano i ragazzi della mia età. Ora è dura, ma dopo il colpo di Stato e le cose che ho visto, non potevo rimanere a casa. Per questo sono felice di essere qua e combattere l’ingiustizia insieme ai Karen, che hanno esperienza e ci stanno aiutando a riconquistare la libertà del Myanmar».
Sinceramente non so che fine abbiano fatto May Phyu Soe e Forty-one. Così come i tanti ragazzi che ho conosciuto in questi ultimi tre anni. Molti hanno pagato con la vita la lotta contro la giunta al potere. Ma ora le cose potrebbero cambiare e il loro sogno potrebbe diventare realtà.
Nell’ultimo anno, infatti, le organizzazioni etniche armate, insieme ai vari gruppi PDF, hanno dato un duro colpo ai militari guidati da Min Aung Hlaing, conquistando ampie zone del Paese, comprese alcuni confini strategici con la Cina e l’India. Nello Stato Karenni, gli uomini del KA e del KNDF hanno conquistato quasi la totalità della città Loikaw, la loro capitale. Nella città di Laukkai, nello Stato Shan quasi 2400 uomini del Tatmadaw si sono arresi.
Questa situazione, mai vista prima, potrebbe portare, entro la fine di quest’anno, alla resa dei generali al potere da decenni. E sancire il nuovo inizio del «Paese d’oro».
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