America

Volete gli Stati Uniti d’Europa? Ecco quanto pagano gli Usa per le loro Grecie

26 Luglio 2015

Subito dopo i risultati del referendum greco dello scorso 5 luglio 2015 è uscito un articolo sul Washington Post scritto da Jared Bernstein (ex capo economista del vice-presidente Joe Biden e senior fellow di un think tank progressista come il Center on Budget and Policy Priorities):  “[In Grecia] ci sono in ballo fattori politici strutturali, che sono endemici al fatto che un’unione monetaria non è un’unione politica, né un’unione fiscale, né una bancaria. Come mi ha detto un economista tedesco: ‘Pensi che alla gente di Manhattan piacerebbe bailing out (salvare) il Texas?’”[1]. Gli fa eco, in un dibattito piuttosto liberal, Paul Krugman, l’economista Premio Nobel e commentatore sul New York Times, attivissimo nei giorni della crisi greca: “Ahem. Difatti la gente di Manhattan did bail out (ha salvato) il Texas”[2]. È successo, continua Krugman, negli anni Ottanta e Novanta, ai tempi della cosiddetta savings and loan crisis. Ma la situazione non è molto diversa oggi, e soprattutto il sistema è simile: nessuno, va avanti lo studioso, ha mai chiesto ai cittadini di Manhattan se volessero salvare il Texas o meno, c’è un sistema che funziona in proposito, e quindi succede automaticamente. Per Krugman, questo è un paragone che funziona più di quello Grecia-Porto Rico che è stato sbandierato a destra e a manca, anche sui giornali italiani. Tra i motivi, proprio il fatto che Porto Rico – malgrado tecnicamente non sia (ancora) uno stato americano ma un territorio – appartenga ad un’unione monetaria ed in particolare il fatto che “le banche di Porto Rico siano al sicuro in un safety net (rete di sicurezza/protettiva) nazionale”. Ci sono infatti negli Stati Uniti una serie di meccanismi di aiuto da parte del governo federale agli stati più bisognosi. Oggi New Mexico, Mississippi, Kentucky, Alabama, sono alcuni degli stati che ricevono i più ingenti aiuti federali in forme dirette o indirette.

Which States Are Givers and Which Are Takers?

La lente distorta con cui si vedono gli Stati Uniti (o meglio, l’America) dall’Italia porta spesso a considerarli come una sorta di unico magma, se non ancora una terra delle opportunità dove tutto e grande e la ricchezza si tocca con le mani. Nonostante vi sia da decenni un discorso forte sulla povertà (almeno da Kennedy in poi), e nonostante si parli da anni del declino della “gloriosa” classe media americana, da noi si fa ancora fatica ad uscire da un immaginario mitico. Invece ci sono stati più poveri e stati più ricchi, stati in temporanea emergenza (come il Texas) che ricevono aiuti, oltre a contee e aree di stati anche in buona salute che invece hanno problemi. Naturalmente non si tratta di stabilire se questo sistema sia buono o cattivo, ma solo evidenziare come in un’unione politica – e spiace contraddire Bernstein ma sì, anche l’Unione europea è, o almeno dovrebbe essere, un’unione politica – ci si aiuta a vicenda. È la normalità quindi, o dovrebbe esserlo: emblematico, in questo senso, il titolo di un articolo dell’Atlantic sul tema: “Which States Are Givers and Which Are Takers?” (quali stati danno e quali prendono?) seguito dal sottotitolo “And is that even the correct way to frame the question?”, cioè “E è davvero questo il modo giusto per inquadrare la questione?” [3].

Vale la pena guardare ai risultati di una recente ricerca di Wallet Hub, che incrocia una serie di dati per capire quali siano gli stati più dipendenti da aiuti federali: il ritorno delle tasse pagate al governo federale (cioè quanti dollari in finanziamento federale ricevo il contribuente di un dato stato per ogni dollaro che hanno pagato di tasse federali); secondo, finanziamento statale come percentuale di entrate statali, cioè quando delle entrate annuali statali, e quindi teoricamente della spesa, è fornito dal governo federale, e terzo – ma per quelli di WalletHub si tratta di una componente meno importante – il numero degli impiegati federali. Messo tutto insieme, il New Mexico guida la classifica (seguendo i tre criteri, $2.19 ritorno di tasse, 37.89 finanziamento, 18.5 impiegati federali pro capite) segue il Mississippi ($2.34, 43.68%, 10.61), poi Kentucky ($2.18, 35.26%, 15.38), Alabama, Montana, West Virginia, Louisiana, South Dakota [4]. Altri dati utili sono quelli elaborati da Tax Foundation (avvertenza: si tratta di un think tank spostato verso i conservatori che in passato ha ricevuto critiche di affidabilità. Ma in questo caso elaborano dati dal Census americano), che, usando soltanto il prisma delle tasse, per il 2013 notano come lo stato che fa più affidamento sull’aiuto federale sia il Mississippi, che ha avuto il 42.9 per cento delle entrate statali attraverso aiuti dal governo federale. Seguono Louisiana (41.9%), Tennessee (39.5), South Dakota (39.0) e Missouri (38.2) [5]. I dati naturalmente cambiano da anno ad anno, ma gli stati interessati sono più o meno sempre gli stessi, con piccole variazioni (per i patiti di numeri: nel sito del Census americano si trovano tabelle dettagliate e cifre precise per quanto riguarda tasse e affini [6]). David C. Parsley, professore di economia e finanze a Vanderbilt University intervistato da Wallet Hub, nota come negli ultimi dieci anni gli stati che più hanno beneficiato di aiuti federali sono South Carolina, Mississippi, Florida, North Dakota, Louisiana, New Mexico, Hawaii, Alabama, West Virginia, Maine, e Kentucky. Ci sono una serie di considerazioni che vanno fatte, come i costi specifici che vanno per la costruzione di infrastrutture, e quindi gli stati più popolosi, come New York, California, e Texas riceveranno più aiuti di altri stati nonostante non siano necessariamente “poveri”, o il fatto che gli stati di frontiera hanno necessariamente più spese che vanno per controllare le frontiere e gestire le ondate migratorie (qualcosa che dovrebbe suonare famigliare…). Per questo, uno stato come il Maine, nell’estremo nord-est, confine col Canada, figura nella classifica di WalletHub al decimo posto. Un po’ di importanza ce l’hanno anche la presenza di basi militari, che ricevono contributi federali, o anche le università e impianti speciali (come quelli a energia solare) che vengono finanziati direttamente dal governo o quantomeno ricevono incentivi.

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(una vista del South Dakota)

Blue America pays for Red America

Cosa hanno in comune gli stati con più necessità di aiuto? Una componente geografica e una diciamo una politica: sono quasi tutti stati del Sud o del Midwest, e sono quasi tutti stati repubblicani, tanto che un commentatore del sopramenzionato articolo di Krugman ha sintetizzato con un “Blue America pays for Red America. Period” (“L’American blue paga l’America Rossa. Punto”). Il fatto che molti di questi stati siano Red State (cioè il rosso dei repubblicani, non quello comunista) e non blue state (democratici) dice qualcosa, soprattutto sull’inconsistenza e dell’ipocrisia di molti Repubblicani – semplificando molto, vogliamo meno intervento delle autorità pubbliche in economia ma poi accettiamo serenamente aiuti federali – ma non dice tutto, nel senso che diversi di questi stati hanno, nel corso della loro storia, cambiato appartenenza politica. Sostiene John Tierney su The Atlantic che non è tutta colpa loro (dei repubblicani del Sud), visto che “per molte decadi del Novecento, quando il Sud era solidamente Democratico, i suoi rappresentanti sia alla Camera che al Senato, godendo di una certa anzianità di servizio, finirono per occupare posizioni di leadership in commissioni potenti, usandole per mandare soldi nei loro collegi sotto forme di contratti e progetti”. Questo naturalmente va di pari passo, nota ancora Tierney, che gli stati che ricevono più aiuti hanno “tassi di povertà eccezionalmente alti”. [3] Nel febbraio del 2012 esce sul New York Times un lungo reportage a firma di Binyamin Appelbaum e Robert Gebeloff dal titolo chiaro e a tesi “Anche i critici del safety net ne sono sempre più dipendenti”. Partono da un case study, la contea di Chisago, a nord est di Minneapolis nello stato del Minnesota, per spostarsi poi a parlare del paese intero. Intervistano una serie di persone, quasi tutti anziani e attuale o ex middle class decaduta. La contea è sì a larga maggioranza repubblicana e riceve vasti aiuti, ma lo stato non è invece tra i più aiutati, anzi. Scrivono i due autori, “Secondo il Census Bureau, quasi la metà degli americani hanno vissuto in famiglie che ricevono benefit dal governo. Siamo passati dal 37.7 per cento nel 1998 al 44.5 per cento nel 2006, prima della recessione, fino al 48.5 per cento nel 2010”. Questo è accompagnato dalla crisi della middle class, del ceto medio americano, che nella contea di Chisago è in costante deteriorarsi, come quasi ovunque nel resto del paese. E torniamo al paradosso di cui sopra. I due autori del NYT citano Dean P. Lacy, un professore di scienze politiche al Darmouth College, che parla di come “il supporto per i candidati repubblicani, che in genere promettono tagli alla spesa del governo, è salito dal 1980 negli stati dove il governo federale spende più di quanto raccoglie. Più grande è la dipendenza, più grande è il supporto per i repubblicani”, e viceversa. Chisago, per esempio, negli ultimi trent’anni è passata da essere stabilmente democratica a repubblicana. [7] Ancora Paul Krugman sul tema: “I Repubblicani amano lanciare allarmi sul fatto che l’America potrebbe fare come la Grecia. Ma guardiamo alle politiche monetarie e fiscali che sono l’ortodossia del GOP: tagli nella spesa governativa (magari compensati da tagli sulle tasse dei ricchi, che non produrrebbero molto stimolo), combinati da una politica monetaria ossessionata dalla paura di uno svilimento del dollaro. Insomma, i conservatori negli Stati Uniti mentre usano la Grecia come ammonimento, in realtà chiedono di adottare le politiche che hanno trasformato il debito greco in un disastro” [8]. Una sottile linea che collega la Grecia agli Stati Uniti forse c’è, ma non è dove vorrebbero i Repubblicani.

The American questione meridionale

Torniamo quindi all’altro punto in comune tra gli stati americani più bisognosi di aiuti federali, e cioè il fatto che siano quasi tutti a Sud o nel Midwest. È un’eterna dinamica tra centro e periferia, in questo caso il centro è spostato a nord-est, lungo il corridoio Boston-New York-Washington DC-Philadelphia, mentre la periferia è il grande Sud e il grandissimo Midwest americano, le terre dove, per dirla con uno dei personaggi di Luce d’Agosto di William Faulkner, “qualsiasi posto da cui scappa non sarà poi tanto differente o tanto peggiore di quello in cui arriva”. È un riproporsi anche di una dinamica che noi conosciamo bene e che magari non è del discorso pubblico americano in questi termini, ma di questo parliamo: la questione meridionale. Il meridione americano è un concetto piuttosto complicato e non direttamente corrispondente al sud geografico (del resto, non è quasi mai, anche in Italia) e dal “sud” concettuale sono esclusi anche stati geograficamente a sud ma che sono qualcos’altro, come il Texas, che del resto era una Repubblica indipendente, ragiona un po’ a sé, “è uno stato d’animo, è un’ossessione. Ma soprattutto, il Texas è una nazione in ogni senso della parola” per dirla parafrasando John Steinbeck, o la California che è un pezzo a sud, ma ogni americano vi direbbe “California is California”, non è a nord, non è al sud, è la California. Non è un caso dunque che una quindicina di anni fa è uscito un libro accademico intitolato The American South and the Italian Mezzogiorno: Essays in Comparative History (Il sud americano e il Mezzogiorno italiano: saggi di storia comparata) dove esplicitamente si mettono a fianco sud Italia e sud Stati Uniti – e forse non è neppure un caso che nell’estrema sinistra e in alcuni ambienti accademici americani il più importante teorico della questione meridionale e del “subalterno”, naturalmente Antonio Gramsci, sia discusso e studiato forse anche più che in Italia. I curatori di The American South and the Italian Mezzogiorno argomentano come “le particolari caratteristiche [del sud degli Stati Uniti] – un’economica preminentemente agricola e una tendenza al conservatorismo nella società e nella politica – hanno prodotto una via alla modernizzazione drasticamente diversa dagli standard nordamericani e europei”, e su queste basi le due regioni possono essere accostate. Con le dovute cautele, la comparazione si può espandere al sud d’Europa, e del resto specie in ambienti di sinistra alcuni hanno visto la crisi greca come l’ennesimo episodio di neo- (o forse proto-) colonialismo verso uno stato più debole.

Between grief and nothing I will take grief’

Proseguiamo su questa strade riprendendo in mano Faulkner via Nicola Lagioia (l’ultimo premio Strega) che in un recente articolo su Internazionale parla del sud dello scrittore americano come “una terra e una comunità che (come quasi tutti i Sud del mondo) sembra dover scontare in eterno le conseguenze di una ferita originaria” e per il sud americano la colpa è la guerra di secessione. Continua Lagioia, “Ma, esattamente come accade con Edipo al cuore della letteratura tragica [naturalmente la Grecia, ancora la Grecia], è proprio una colpa e una ferita originaria a donare (oltre al dolore e alla vergogna) una consapevolezza e una profondità di visione che i fortunati abitatori dei mondi senza peccati imperdonabili non hanno. […] A chiunque, figlio di nessun tempo, convinto che disprezzo e sarcasmo siano le credenziali da incidere sulla linea tratteggiata dei documenti per avere cittadinanza del ventunesimo secolo, consiglio di volgere lo sguardo altrove. Chiunque, figlia o figlio del ventunesimo secolo, ritenga che nessun tempo meriti di negare all’uomo almeno una speranza, troverà in William Faulkner una splendida compagnia”. Che Faulkner debba farci compagnia anche pensando alla Grecia di oggi, interrogandoci sui “fortunati abitatori dei mondi senza peccati”? E ancora Lagioia, “Il Mississippi del 1930 non ci appartiene. La contea di Yoknapatawpha (che di quel Mississippi è la trasfigurazione faulkneriana) invece sì, e in maniera potente – cambiato negli ultimi anni con violenza il paradigma su cui le nostre vite sono costrette a regolarsi, esattamente come l’Harry di Palme selvagge ci sentiamo chiamati a dover scegliere ogni giorno tra il dolore e il nulla” [9]. Diversi anni dopo, nel 1959, Jean-Luc Godard userà questa citazione in uno dei momenti cardini dell’incontro tra una giovane americana un po’ ingenua, Jean Seberg, e un francese mascalzone e bello, Jean-Paul Belondo, in un Europa in costante americanizzazione, blue jeans e rock ‘n’ roll, in una Parigi dove le macchine sfrecciano veloci e arrangiarsi è un’arte praticata quasi quanto a Roma. Il film è Fino all’ultimo respiro, origini della Nouvelle Vague e del cinema moderno europeo. La scena è ambientata sul letto, e dice: “Conosci William Faulkner?” dice lei, “No chi è? Sei stata a letto con lui?”, “Ma no, cosa dici” “Allora me ne frego… su togliti la camicetta” “è un romanziere che mi piace molto, hai letto Palme Selvaggie?” “Ti ho detto no, no, togliti la camicetta” “Senti, l’ultima frase è molto bella: ‘Between grief and nothing I will take grief’ ‘fra il dolore e il nulla io scelgo il dolore’. E tu, che cosa sceglieresti?” “Fammi vedere i piedi, sono molto importanti sai i piedi in una donna” “Tu cosa sceglieresti?” “Il dolore è idiota. Io scelgo il nulla. Non è meglio, ma il dolore è un compromesso, o tutto o niente, è da poco che lo so”. Ma questo, forse, non c’entra nulla con la Grecia, gli aiuti federali agli stati più in difficoltà, e l’immaginario mitico del Sud. Forse. O forse questo incontro transatlantico, questo discutere di compromessi, questo cambiare argomento bullandosi della letteratura, questo dover scegliere di che morte morire, ecco, forse c’è molto di tutto ciò anche nell’attuale scenario politico.

Utopia and communities

Forse si può forse vedere la storia degli Stati Uniti come una costante ricerca di un’unità sempre più perfetta. “Noi, Popolo degli Stati Uniti, allo Scopo di realizzare una più perfetta Unione”, è il noto inizio della Costituzione americana, che gli studenti di ogni ordine e grado mandano a memoria. Nella retorica di Barack Obama, l’idea di unione è costante e ripetuta, ha detto di recente nel suo discorso dopo che la corte suprema ha approvato i matrimoni tra persone dello stesso sesso che “we can say in no uncertain terms that we’ve made our union a little more perfect” (possiamo dire senza incertezze che abbiamo reso la nostra unione un pochino più perfetta). Perché naturalmente non è un’unione perfetta, quella degli Stati Uniti, le disuguaglianze e gli esclusi permangono, ogni tanto si fanno vivi in forme diverse e talvolta radicali, molto spesso rimane un rumore quasi di fondo. Rimane il fatto, però, che si tratta di un’unione, con U maiuscola o minuscola che si voglia. Unità politica significa responsabilità, anche economica. Gli Stati Uniti d’America non sono l’Unione Europea, né i potenziali Stati Uniti d’Europa. Non lo sono politicamente e giuridicamente, ma soprattutto non lo sono idealmente. È un tipo di coesione impensabile e irrealizzabile in Europa. Ma si tratta, comunque lo si voglia vedere, di una coesione costruita su una continua battaglia continua tra esclusione e inclusione, espansione e consolidamento, su ciò che è americano e ciò che non lo è, ciò (e chi) ha diritto di cittadinanza e chi no. Gli Stati Uniti non sono un’utopia realizzata, anche se molti americani vorrebbero farcelo credere, ma un’utopia in costante realizzarsi, e quindi eternamente incompleti (in un certo senso, è proprio quella utopia che li fa continuare a camminare, per continuare ad abusare di una famosa e ormai pop citazione di Edoardo Galeano). All’interno di questo quadro è evidente che almeno teoricamente per mantenere quest’unione chi ha di più deve aiutare chi ha di meno, posto che appunto chi ha di meno sia stato ammesso al tavolo e faccia parte dell’unità politica e umana americana. In questo quadro quindi, gli stati più ricchi aiutano i più poveri, o meglio, formalmente l’unità centrale, quella federale, aiuta gli stati più poveri. È un paradosso, fa notare John Tierney, il paradosso del “ruolo del lontano governo federale come agente per la comunità. A causa dei programmi federali, le genti di posti come South Carolina o Mississippi vengono aiutati non dai vicini di qualche strada più in là o della prossima contea, ma dai residenti del Delaware, Minnesota, Illinois, e Nebraska. Se questo piaccia o meno dipende da come si riconcilia la tensione tra due valori americani essenziali e da tanto amati – la nostra passione per l’individualismo e il nostro essere attaccati alla comunità – e se si intende la ‘comunità’ come comprendente ‘intero paese o no. Questa è una cosa più interessante su cui riflettere (anche se forse meno visceralmente soddisfacente) che quali stati sono scrocconi o approfittatori e quali vengano spennati” [3]. Ecco, qualche migliaia di chilometri più in qua, con valori essenziali magari piuttosto diversi e con un’unione sicuramente molto molto diversa, le domande non sono poi invece così diverse: anche in Europa bisognerebbe forse cominciare ad interrogarci sui confini della nostra comunità (con ‘c’ maiuscola o minuscola che si voglia), confini ideali oltre che reali, cercando di capire quanto chi ha in mano i bottoni del comando abbia davvero voglia di impegnarsi per questa comunità.

 

[1]. Bernestein http://www.washingtonpost.com/posteverything/wp/2015/07/05/a-resounding-no-from-greece/?hpid=z9

[2] Krugman Texas (http://krugman.blogs.nytimes.com/2015/07/06/lone-star-bailout-2/).

[3] http://www.theatlantic.com/business/archive/2014/05/which-states-are-givers-and-which-are-takers/361668/

[4]Cheet Sheet/ WalletHub http://www.cheatsheet.com/business/10-states-most-dependent-on-the-federal-government.html/?a=viewall

[5] [http://taxfoundation.org/blog/map-which-states-relied-most-federal-aid-2013].

[6] Census https://www.census.gov/govs/state/).

[7] http://www.nytimes.com/2012/02/12/us/even-critics-of-safety-net-increasingly-depend-on-it.html?pagewanted=all

[8]Krugman repubblicani http://krugman.blogs.nytimes.com/2015/07/08/policy-lessons-from-the-eurodebacle/

[9] http://www.internazionale.it/opinione/nicola-lagioia/2014/12/28/viviamo-nel-mondo-inventato-da-william-faulkner

 

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