America
Viaggio nell’Argentina di Milei, al di là delle tifoserie
Da due settimane in Argentina non si parla d’altro: Milei e la fine dello stato sociale, vero orgoglio della sinistra sociale Argentina; Milei e la liberazione dal giogo del peronismo, che secondo molti è la causa dell’iperinflazione che sta piegando il paese (il 40% del paese vive oggi in condizioni di povertà). Come molte cose a queste latitudini, anche la recente elezione del primo presidente autoproclamatosi anarchico-capitalista sta diventando una questione di guelfi vs. ghibellini, o meglio River vs. Boca. Ho parlato con molte persone nell’ultimo mese, docenti universitari, esponenti della classe imprenditoriale, liberi professionisti e dipendenti pubblici, e l’idea che mi sono fatto è netta: Milei o si ama o si odia. Da osservatore esterno, cerco di mantenere una prospettiva oggettiva e provo a contestualizzare i primi provvedimenti del nuovo governo all’interno di un paese oggi in grande difficoltà economica. Prima di avventurami in scivolose letture, metto le mani avanti e cito un imprenditore italiano (Giovanni B.) che da quarant’anni lavora a cavallo tra Italia e Argentina: “non ho ancora capito questo paese in 36 anni di vita qui, figurati cosa puoi capire tu qui in un mese”. L’Argentina è un paese denso e variegato, che nella sua storia recente mette insieme una criminale dittatura militare e un welfare state e un’attenzione ai diritti umani degni di un paese europeo. E anche l’elezione di un presidente così divisivo e per molti aspetti eccessivo sembra inseguire la passione e le contraddizioni del paese con la più grande comunità italiana al di fuori dell’Italia. Ecco, per capire l’Argentina e l’elezione di Milei, serve addentrarsi nella cultura profonda di questo paese. Una cultura fatta di relazioni tra famiglie che gestiscono agglomerati aziendali, nepotismo e corruzione, ma anche di una classe culturale vivace e progressista che nella sua agenda politica e sociale mette oggi al centro la disuguaglianza di genere e il cambiamento climatico. Chi oggi si oppone a Milei sono principalmente loro, gli esponenti di un movimento progressista che per lungo tempo ha visto nel peronismo dei Kirchner un antidoto agli effetti nefasti del capitalismo neoliberista. Domani, mercoledì 24 gennaio, saranno proprio loro a scendere in piazza e a protestare contro i primi provvedimenti del nuovo governo a trazione liberista. Ma quali sono i motivi di queste proteste? “L’attacco allo stato sociale”, mi racconta Virginia R., dipendente del governo, sorseggiando un calice di Torrontes.
Ma è davvero così? L’unica certezza è che con il governo Milei ci sarà una stretta alla spesa pubblica, che inevitabilmente impatterà sulle classi più deboli oggi dipendenti dai sussidi statali. D’altra parte, il neoeletto presidente nel suo discorso d’insediamento è stato netto: “no hay plata”, frase che non necessita di traduzione. Perché la verità molto probabilmente sta proprio qui, in un paese che a lungo ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità, investendo certamente nello stato sociale ma anche, abbondantemente, in sussidi alle classi popolari. Così, la spesa pubblica ha raggiunto livelli non più sostenibili, compromettendo la tenuta economica del paese ed alimentando un’inflazione che nel 2023 ha superato il 200%. Milei arriva al potere promettendo un cambio netto col passato ed intercettando un consenso variegato, che mette insieme imprenditori e nostalgici della dittatura militare ma anche esponenti di quella classe media oggi massacrata da un’inflazione che supera quella del Venezuela. La cura economica che propone è forte e senza compromessi: snellimento dello stato e riduzione della spesa pubblica, aggiungendo idee economiche strampalate come la chiusura della banca centrale e la dollarizzazione dell’economia. Tradotto in soldoni, meno sussidi per molti e maggiori sofferenze economiche nel breve periodo. La speranza, si crede nei circoli conservatori, è di rimettere i conti in ordine, riacquistare credibilità nei mercati internazionali e rinegoziare il debito monstre con il fondo monetario internazionale.
È una cura che da un punto di vista economica sembra razionale e sensata, ma che porta con sé un cambio netto e radicale rispetto ad una gestione della spesa pubblica irrazionale, che ha garantito per molto tempo benessere diffuso ma insostenibile ad una ampia fascia della popolazione. Milei non sarà il salvatore della patria, così come non potrà essere ritenuto il responsabile dell’eventuale fine dello stato sociale argentino. Rappresenta, più semplicemente, la risposta forte e a tratti eccessiva e volgare ad un modello economico non sostenibile nel tempo. È difficile non condividere lo snellimento dell’enorme macchina pubblica e la semplificazione della burocrazia che i primi provvedimenti mettono a target; tuttavia, allo stesso tempo, è giusto interrogarsi sulla portata sociale del cambiamento promesso. Definire il socialismo il male della società occidentale, come accaduto settimana scorsa a Davos, è un’affermazione che si commenta da sola e la volontà di limitare l’accesso all’aborto sancirebbe un ritorno al passato per un paese dove le donne sono ancora oggi pesantemente discriminate. Insomma, Milei non può ridursi a buoni contro cattivi, stato contro mercato, River contro Boca, poer stare a un classico del calcio argentino. È, semmai, la risposta aggressiva e urlata ad un modello economico che ha visto nello stato lo strumento per porre fine alla povertà. Dopo vent’anni l’Argentina si sveglia più povera e disillusa e ci ricorda che l’economia di una nazione è sempre quello che il paese sa produrre, non quello che decide di spendere. È una lezione faremmo bene a non dimenticare anche dall’altra parte dell’oceano.
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