America

Viaggio in Patagonia, anche dove finisce il mondo sta cambiando tutto

15 Gennaio 2017

La Patagonia è quasi sicuramente oggi, nel 2017, l’unico luogo al mondo dove ti può capitare di accendere la radio e tradurre il seguente messaggio: “Maria informa Tonio che loro figlio è nato; è pregato di ritornare a casa”. Miglia e miglia di vuoto, nel più profondo sud del continente latino, a un passo dal Polo Antartico. Un deserto sterminato, con rovi a perdita d’occhio per chilometri. Non ci sono i ripetitori per cellulari, ma la radio prende benissimo. Internet funziona a tratti e in media, tra un minuscolo villaggio e l’altro, ci sono almeno trecento miglia di nulla selvaggio e primordiale.

Così scriveva Bruce Chatwin nel suo libro-simbolo di tutti i viaggi, In Patagonia, nel 1977: “Il deserto della Patagonia non è un deserto di sabbia o di ghiaia, ma una distesa di bassi rovi dalle foglie grigie, che quando sono schiacciate emanano un odore amaro. Diversamente dai deserti dell’Arabia non ha prodotto nessun drammatico eccesso dello spirito, ma ha certamente un posto nella storia dell’esperienza umana.”

In questo libro – meno stilisticamente stupefacente e spavaldo del suo cugino famoso Sulla strada, ma più intimo e ingenuamente sincero – si racconta la vicenda del suo protagonista-autore, che nel 1974 – dopo essersi licenziato dal giornale per cui lavorava con il telegramma più semplice e sbrigativo della storia (‘Sono andato in Patagonia.’) – vagò incessantemente attraverso una delle regioni più inospitali del globo; in un’epoca in cui non esistevano le infrastrutture di adesso, né le comodità da viaggiatore in stile TripAdvisor, e in un periodo di stravolgimenti politici e storici sconvolgenti per quelle nazioni. È il compendio perfetto per capire, o cercare di capire, una delle zone più complesse e affascinanti della terra.
La Patagonia è una regione geografica dell’America latina divisa tra Argentina e Cile. Ha un’estensione di oltre 900mila km², una popolazione di poco più di un milione e mezzo di abitanti, e una densità di 2,21 abitanti per km². Tradotto: un’immensa landa desolata, praticamente vuota; un villaggio ogni tre ore di strada, e in mezzo solo sterpi, struzzi, pecore e guanacos. E fa freddo. Come può un territorio così selvaggio e inospitale stimolare incessantemente la curiosità di migliaia di viaggiatori all’anno? Il fascino è un qualcosa che non si può descrivere, né tantomeno si dovrebbe tentare. La bellezza non si dice, la si contempla in silenzio e estasi, ed è questo il caso. E nonostante gli enormi cambiamenti che quelle terre hanno attraversato e attraversano, essa sembra rimanere una costante invariata nei decenni.

Chatwin nel suo libro ci racconta spesso di territori immacolati e rarissimi, lontani anni luce dall’idea di bellezza naturale canonica a cui siamo abituati, dotati di un richiamo primordiale e atavico senza paragoni. Ma gli stravolgimenti paesaggistici a cui la Patagonia è stata sottomessa esistono e sono oggi purtroppo sotto gli occhi di tutti. Possono essere riassunti in una sola parola: petrolio.
Il 13 dicembre scorso è stata celebrata la ‘Giornata Patagonica del Petrolio’ e in essa è stato pomposamente annunciato che – se le estrazioni andranno avanti con il ritmo attuale – si calcola che la Patagonia offrirà ancora petrolio per i prossimi 107 anni. Solo nella regione circostante Comodoro Rivadavia, in Argentina, ci sono più di cinquecento impianti di estrazione. L’aria è irrespirabile e secchissima, carica di polvere e fumo. La sabbia smossa dagli impianti e dal vento incessante – che non trova barriere naturali o architettoniche per chilometri e chilometri – ti tormenta, ti entra negli occhi e non ti permette neanche di mangiare un panino all’aperto. Tutti i lavoratori trapiantati negli anni dal povero nord verso l’improvvisamente ricco sud – spinti dalla fame, i poveri; o invogliati dagli sgravi fiscali, i ricchi – hanno trasformato la provincia del Chubut nel sud argentino in una specie di enorme dormitorio, con solo qualche sparuto turista di passaggio che non capisce come fa questa regione a essere così diversa dall’incontaminata e meravigliosa provincia del Rio Negro, giusto un passo più a sud.

In quei luoghi inerti una legge vecchia di decenni stabilisce che tutti i proprietari terrieri possono possedere solo la superficie delle loro terre; il mondo sottostante e le sue ricchezze appartengono al governo. Ovviamente i proprietari non ci misero molto a capire che affittare alle compagnie petrolifere (multinazionali straniere in gran parte americane e francesi) fruttava molto di più che allevare vacche e pecore. E così il Chubut cambiò, mentre la provincia sottostante del Rio Negro rimaneva immutata. Solo qualche tempo dopo i soldi del petrolio vennero lì investiti in resort e infrastrutture per turisti improvvisamente ansiosi di vedere i guanacos e i pinguini della Terra del Fuoco (la meravigliosa regione arcipelago più a sud del mondo – subito prima del Polo Antartico – anch’essa divisa quasi caoticamente tra Cile e Argentina in una delle bizzarrie geografiche più interessanti della storia). E così si consumò lo stravolgimento della Patagonia, che cambiò il suo aspetto ma non la qualità di vita dei suoi abitanti.

La storia sembra sempre ripetersi: i fierissimi e forti abitanti di queste regioni – come la popolazione cilena Mapuche – furono tra gli ultimi a cadere agli invasori spagnoli, ma nonostante questo vengono oggi visti con disprezzo e vivono ai margini della società ultramodernista di Santiago. Nel Chubut ancora è presente il tempio che ricorda Inacayal, il condottiero Tehuelche (sono quasi un centinaio le distinte popolazioni indigene che hanno popolato il territorio nei secoli – ognuna con la propria storia e la propria lingua e identità culturale) che osò sfidare la potenza dell’esercito spagnolo nella Conquista del Deserto del 1880. Ma non riceve molti visitatori.
Le potenze esterne sono arrivate, si sono messe comode a spese degli indigeni, e poi hanno costruito resort o – letteralmente – cattedrali nel deserto, nel tentativo maldestro di lavare coscienze o sviare attenzioni. Alle popolazioni autoctone sono rimaste le briciole e i bellissimi panorami sviliti da decine di centri benessere.

Intanto anche la Storia faceva visita da quelle parti. Bruce Chatwin in tutto il suo libro nomina Pinochet solo una volta, quasi di sfuggita, nonostante il suo viaggio fosse avvenuto subito dopo l’avvio di uno dei regimi totalitari più sanguinosi della storia. Aveva senso all’epoca. In quegli anni la Storia non si era ancora affacciata in quelle terre. Oggi invece un centro di tortura gestito da ex nazisti rifugiatisi in Cile, al soldo di Pinochet, fa bella mostra di sé a sud di Puerto Montt – il suo nome, quando in funzione, era Colonia Dignidad.
Ancora oggi le popolazioni autoctone lungo l’intera smisurata area si riuniscono a intervalli regolari per protestare e manifestare contro la continua apertura di resort gestiti da stranieri (tra cui anche i nostri Benetton, che dopo aver cacciato una colonia di Mapuche dal loro territorio nel sud del Cile per costruirci l’ennesimo resort, hanno pensato bene di aprire un Museo di Cultura Mapuche). Ma rimangono sempre puntualmente inascoltati. Sono semplicemente troppi gli interessi economici sull’area. E il denaro si ostina a vincere sempre.
Eppure quel fascino, quell’antica bellezza sembra non essere capace di svanire. Rimane intoccata lungo quei panorami lenti e spogli. E ora come allora, una citazione di Bruce Chatwin sembra racchiudere il senso di quei luoghi al contempo immoti e stuprati:

“chi percorre il deserto scopre in se stesso una calma primitiva (nota anche al più ingenuo dei selvaggi) che è forse la stessa cosa della Pace di Dio”.

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