America

Venezuela, è solo un ‘golpe americano’?

29 Gennaio 2019

L’interpretazione di una certa sinistra, secondo cui lo scontro in atto in Venezuela sarebbe un semplice golpe americano, si concentra su una parte della verità (il sostegno di Trump a Guaidò è evidente), ma ne ignora un’altra e cioè che, a differenza di quanto avvenne dopo l’arresto di Chavez nel 2002, stavolta la tradizionale base sociale del chavismo non si è mobilitata a difesa del governo bolivariano. L’unico alleato di Maduro (per ora) sono i generali. La crisi del chavismo è l’occasione per fare un bilancio del cosiddetto ‘socialismo del XXI secolo’.

Il 4 gennaio i Ministri degli Esteri di Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Guyana, Honduras, Panama, Paraguay, Perù e Santa Lucia (gli USA presenziavano in qualità di ‘osservatore’) si riunivano a Lima, in Perù, e sottoscrivevano un appello al Presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, riconfermato dalle urne lo scorso maggio col 67% dei voti, a non insediarsi, a trasferire il potere al Parlamento e a indire nuove elezioni. Di fronte al rifiuto di Maduro, il 23 gennaio Juan Guaidò, 35 anni, da pochi giorni Presidente del Parlamento ed esponente del partito di opposizione della Volundad Popular, si è autoproclamato Presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela fino allo svolgimento di ‘regolari elezioni’. Lo ha fatto in una manifestazione di piazza nel 61esimo anniversario della caduta del dittatore Marco Pérez Jiménez, rivolgendosi alle Forze Armate e promettendo l’amnistia a chi abbandonerà Maduro. Guaidò è stato immediatamente riconosciuto quale ‘legittimo Presidente’ da Donald Trump, seguito dal Canada e da Brasile, Argentina, Colombia, Cile e Perù, in Europa di fatto da Francia, Germania e Spagna (che minacciano di riconoscere Guaidò se non verranno indette elezioni entro una settimana), mentre rimangono a fianco di Maduro Cuba (la cui sopravvivenza dipende dal petrolio venezuelano), Messico, Bolivia e Nicaragua e, con entusiasmo calante, Turchia, Russia e Cina. ‘L’UE – ha scritto Nicolò Locatelli su Limes il giorno dopo l’autoincoronazione – ha compiuto il suo ennesimo capolavoro diplomatico con una serie di comunicati e dichiarazioni in burocratese, dalle quali si deduce che Bruxelles è timidamente dalla parte di Guaidó’ (Limes240119). In Italia Salvini ha dichiarato che ‘prima Maduro se ne va meglio è’ (ricevendo i ringraziamenti di Guaidò), il M5S ne ha approfittato per attaccare Macron parlando di ingerenza francese nella crisi venezuelana, mentre Conte e Moavero si arrampicano sugli specchi per esprimere una posizione unitaria senza contraddire gli azionisti di maggioranza del Governo. Le due maggiori forze di opposizione, PD e Forza Italia, si schierano anche loro con Guaidò, invitando il Governo ad allinearsi a Francia, Germania e Spagna.

Maduro per parte sua accusa Guaidò di essere la marionetta di un golpe organizzato da Trump e ha dato prima 72 ore poi 30 giorni di tempo al personale diplomatico USA per abbandonare il paese. Per parte sua Trump ha evocato in modo velato ma eloquente la possibilità di un intervento militare che non potrà realizzare, perché gli stessi vertici del Pentagono hanno già fatto sapere in passato, per ovvie ragioni, di essere contrari. Al momento l’esercito venezuelano appare fermo nel suo appoggio all’erede di Hugo Chavez, ma non è chiaro quanto a lungo rimarrà su questa posizione né, soprattutto, se la posizione dei vertici è condivisa dagli ufficiali di rango inferiore e dalla truppa. C’è chi sostiene che gli ufficiali di rango inferiore e i soldati comincino a vacillare, anche perché sono esposti, come la popolazione, ai colpi della crisi economica.

Un bilancio economico del chavismo

Dal punto di vista politico lo scontro in Venezuela è interessante perché costringe a fare un bilancio del chavismo e più in generale di una stagione politica che per molti anni ha fatto dell’America Latina e del ‘socialismo bolivariano’ un modello per la sinistra mondiale, inclusa quella italiana. Quel modello però non ha resistito alla crisi del 2008 e oggi appare travolto dalla marea montante di una destra che ha espugnato l’Argentina, il Cile, Il Brasile e ora sta liquidando definitivamente quella stagione.

Come sempre per capire la politica è utile cominciare dall’economia. Il Venezuela è il paese con le maggiori riserve petrolifere accertate nel mondo. Secondo alcune stime del 2010 si tratterebbe di quasi 300 miliardi di barili, contro i 265 dell’Arabia Saudita. E proprio come per l’Arabia Saudita anche per il Venezuela quest’immensa fortuna è stata anche per certi versi una palla al piede per un paese che, proprio perché naviga sul petrolio, non ha mai sentito più di tanto il bisogno di differenziare i propri investimenti, al punto che il 95% delle esportazioni venezuelane è costituito dal solo petrolio e che negli ultimi anni il paese ha cominciato a importare generi alimentari che un tempo esportava (ad esempio riso e cereali).

E’ noto che Hugo Chavez nel 2007 nazionalizzò il petrolio, ma non è altrettanto chiaro in che cosa sia consistita esattamente la ‘nazionalizzazione’. La compagnia petrolifera venezuelana PDVSA in realtà era stata statalizzata molti anni prima, addirittura nel 1976. Ma le grandi compagnie petrolifere straniere avevano continuato a operare a fianco dello Stato. La nazionalizzazione del 2007 espropriò (con un indennizzo) quote azionarie delle filiali venezuelane di quelle società ponendone il controllo in mano a PDVSA. In altre parole da una decina d’anni a questa parte le maggiori compagnie petrolifere, tra cui ENI, Chevron, Rosneft, China National Petroleum Corp, in Venezuela operano attraverso joint venture con PDVSA, di cui quest’ultima detiene una quota di maggioranza. Fino all’arrivo della crisi economica mondiale il chavismo, destinando circa il 10% degli introiti del petrolio alla spesa sociale, è stato in grado di garantire condizioni di vita dignitose alla popolazione, ha fornito posti di lavoro (nel 2016 lavoravano per PDVSA circa 150mila persone) e soprattutto una serie di programmi sociali volti a garantire prezzi calmierati per i generi alimentari e di prima necessità, cure e istruzione.

La crisi mondiale e la conseguente caduta del prezzo del petrolio hanno avuto un impatto devastante su un paese in cui il greggio, oltre al 95% delle esportazioni, rappresenta il 25% del PIL, il 50% delle entrate fiscali e il 97% dell’importazione di valuta straniera, ma in cui viene messo in commercio solo lo 0,5% delle riserve accertate presenti nel sottosuolo, il tasso di estrazione più basso del mondo e la produzione continua a precipitare. PDVSA inoltre deve pagare 3 miliardi di dollari per inadempimenti contrattuali e rischia di dover pagare altri 2 miliardi per un contenzioso legato alla nazionalizzazione della compagnia petrolifera americana ConocoPhilips, a cui si aggiungono quasi altri 5 miliardi per il mancato versamento degli indennizzi previsti per la nazionalizzazione del settore minerario. Questo indebitamento ha fornito a Trump e all’UE la giustificazione per vietare l’acquisto del debito pubblico venezuelano e dei titoli della PDVSA e per minacciare di porre sotto sequestro i beni venezuelani all’estero (tra cui anche raffinerie e le petroliere). Tra gennaio 2017 e gennaio 2018 secondo BusinessInsider circa 25mila dipendenti della compagnia petrolifera di Stato si sarebbero licenziati, perlopiù tecnici e personale qualificato difficile da rimpiazzare.

Agli effetti della politica petrolifera si sommano quelli della corruzione dilagante. Come in Brasile e in altri paesi del Sud America le immense somme di denaro generate dal petrolio e utilizzate in parte per sostenere la spesa sociale hanno alimentato la rapacità e l’inefficienza della burocrazia statale che doveva gestire l’allocazione di quell’enorme liquidità. Tra il 2014 e il 2017 il Venezuela ha visto contrarsi la propria economia di un terzo, la crisi del petrolio ha tagliato le entrate fiscali dello Stato e quindi le risorse destinate alla spesa sociale, l’iperinflazione (il tasso è un milione e 300mila per cento) ha azzerato il potere d’acquisto dei lavoratori, oltre 3 milioni di venezuelani su meno di 40 milioni, quasi il 10% della popolazione, sono stati costretti a emigrare (nel 2018 sono stati 5500 al giorno), il tasso di mortalità infantile sotto i 5 anni è balzato dal 17 al 26 per 1000, le morti durante la maternità sono aumentate del 65% e i casi di malaria del 76% (Guardian090517, Economist250119). Numeri che dipingono un welfare in dissoluzione e spiegano perché il regime chavista ha smesso di rappresentare una garanzia di sopravvivenza dignitosa per la propria base sociale. Le inevitabili manifestazioni di protesta scaturite da questa situazione inoltre sono state denunciate come atti eversivi sobillati dall’imperialismo yankee e represse con la violenza. In campo sindacale le aggressioni poliziesche ai cortei, gli arresti di sindacalisti indipendenti e di lavoratori in sciopero, spesso con la complicità della burocrazia sindacale fedele al PSUV si sono moltiplicati (LaIzquierdaDiario311218). E mentre Maduro autorizzava l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità del 20%-30% e tagliava i programmi di assistenza, la compagnia statale PDVSA vendeva obbligazioni a Goldman Sachs praticandole un generoso sconto del 69% (Sole24Ore310517) e più in generale il Governo praticava ampie concessioni alle élite nazionali e alle multinazionali ‘imperialiste’.

La base sociale del chavismo

I risultati elettorali danno conto in modo abbastanza eloquente dell’evolversi della ‘connessione sentimentale’ tra il chavismo e la propria base sociale negli anni. Hugo Chavez viene eletto presidente per la prima volta nel 1998, in una consultazione in cui gli iscritti ai registri elettorali sono poco più di un milione, dunque un test statisticamente poco significativo. Nel 2000 invece gli aventi diritto sono 10 volte tanto, la partecipazione al voto è al 56,3% e Chavez ottiene 3,7 milioni di voti. Sei anni più tardi il Presidente viene confermato con 7,3 milioni di voti su 11,8 milioni di votanti (il 75% degli aventi diritto). Nel 2012 i voti a Chavez salgono a 8,2 milioni su 15,2 milioni di votanti (80,49%). Nel 2018, col paese ancora commosso per la recente scomparsa del suo leader, Maduro gli succede ottenendo 7,6 milioni di voti su 15 milioni (79,68%), mentre lo scorso maggio il MUD, che raggruppa le 3 maggiori forze di opposizione, decide di boicottare le urne e l’erede di Chavez riceve 6,2 milioni di voti su 9,2 milioni di votanti (46,06%). Insomma nel giro di 8 anni, in un paese in cui peraltro circa metà della popolazione è esclusa dalle urne, secondo gli stessi dati della Repubblica Bolivariana il chavismo perde 2 milioni di voti e il suo consenso si riduce di un quarto.

Ma più ancora del dato elettorale pesa il voto che i venezuelani hanno dato con le proprie azioni. Nell’aprile 2002, quando un golpe depose Chavez (l’ex presidente americano Jimmy Carter ha detto in seguito che ‘gli USA avevano piena conoscenza o addirittura potevano essere coinvolti direttamente’), la popolazione scese nelle strade, presidiò la capitale e i centri nevralgici del paese e diede l’assalto alla tv di Stato, spingendo anche l’esercito, che inizialmente aveva appoggiato l’opposizione, prima a spaccarsi, poi a fare marcia indietro. E così dopo meno di 48 ore dal suo arresto Chavez tornò al comando. Oggi all’emigrazione di massa dal paese, alle migliaia di dimissioni dalla principale azienda di Stato, alle manifestazioni di protesta per l’aumento dei generi di prima necessità si aggiungono altri segnali inequivocabili. Il 21 gennaio, due giorni prima dell’autoproclamazione di Guaidò, nei barrios popolari e tradizionalmente chavisti della parte est di Caracas la popolazione è scesa in piazza contro Maduro dopo una manifestazione indetta da un gruppo di soldati della Guardia Nacional Bolivariana, che hanno protestato contro il Governo chiedendo alla popolazione del quartiere di unirsi a loro.

Tutto ciò significa che gli Stati Uniti questa volta non c’entrano e che Guaidò è la genuina espressione del malessere sociale provocato dal fallimento del chavismo? Certamente no. Che l’amministrazione Trump abbia lavorato per arrivare all’attuale caos appare abbastanza evidente, così come è evidente che, pur con le usuali contraddizioni, anche l’UE (la Spagna in particolare) si sia impegnata per la caduta di Maduro. Guaidò è l’espressione di quelle élite che da sempre vedono il chavismo come fumo negli occhi, per i limiti che esso ha posto all’iniziativa privata, per la politica redistributiva che ha portato avanti fino a un certo punto della sua parabola e anche per l’atteggiamento di sfida nei confronti degli USA e delle multinazionali occidentali, atteggiamento con cui ha cercato di accreditarsi presso i venezuelani, ma anche, con un certo successo, agli occhi della sinistra mondiale come un modello vincente.

La realtà va affrontata per quello che è e non per quello che vorremmo o che ci fa comodo credere (o far credere). Il chavismo ha preso il potere facendo leva sul malessere sociale derivante dalla pessima gestione di un’economia già arretrata e dipendente dal petrolio, un problema riconosciuto da almeno 20 anni e che sia Chavez che Maduro non hanno risolto e, a dire il vero, neppure affrontato. Chavez ha tradotto in pratica il suo confuso armamentario ideologico, un mix in cui confluiscono e si sommano Simon Bolivar, Fidel Castro e tracce del peronismo argentino, dando vita a un regime fondato su un patto sociale tra i settori popolari e la cosiddetta borghesia bolivariana del Venezuela, patto in forza del quale ha costretto il capitale straniero da sempre presente nel paese ad accettare una riduzione della propria libertà di manovra e dei propri profitti. Così facendo, come abbiamo visto, per alcuni anni il chavismo ha potuto garantire ai contraenti ciò che volevano. Una politica abilmente presentata ai lavoratori e ai ceti popolari venezuelani e alla sinistra mondiale come il primo passo di una ‘rivoluzione’ che avrebbe portato verso una società socialista (nell’accezione estremamente sfuggente che il termine ha sempre avuto nel lessico chavista), ma che in realtà non ha mai messo in discussione il fondamento delle disuguaglianze sociali che da sempre affliggono la società venezuelana. Col risultato che quando le condizioni materiali che stavano alla base di quel patto sono venute meno le contraddizioni fino ad allora latenti sono venute a galla, insorabilmente.

Il ‘Socialismo del XXI secolo’

Come scriveva in un’interessante analisi sulla matrice ideologica del chavismo su Limes110200 Jose Briceño Ruiz, docente di Scienze Politiche all’Universidad Cooperativa di Colombia a Bogotà, i differenti orientamenti che emergono nella politica di Chavez ‘riflettono non solamente la sua personale evoluzione politica, bensì anche quella dell’intero movimento chavista. Sotto l’ala del movimento convivono infatti idealisti bolivaristi, ceresolisti arroccati su intransigenti posizioni anti-globalizzazione e anti-Stati Uniti, e pragmatici che, pur caldeggiando una politica estera più o meno indipendentista, rifiutano qualsiasi atteggiamento che possa provocare isolamento sul piano internazionale e attriti con gli Stati Uniti. Lo stesso Chávez è parte di questo processo e le sue posizioni teoriche e pratiche sono in qualche modo il risultato delle pressioni che egli subisce da parte dei vari gruppi interni’. Un pragmatismo che in politica estera spiega come egli abbia ‘contemporaneamente sostenuto l’unificazione latinoamericana, criticato la globalizzazione, si è proposto come leader dei paesi del Terzo Mondo, ha aperto a Fidel Castro ma coltivato cordiali relazioni politiche e commerciali con gli Stati Uniti’. D’altra parte ricordava 13 anni dopo Nicolò Locatelli, in occasione della morte del Comandante: ‘La retorica anti-imperialista, particolarmente vivace durante la presidenza di George W. Bush, serviva anche a nascondere un dato incontrovertibile: gli Stati Uniti sono il principale partner commerciale di Caracas e il primo acquirente del petrolio venezuelano. Il Venezuela ha bisogno di loro molto più di quanto loro abbiano bisogno del Venezuela’ (Limes050313).

A questi giudizi, pronunciati da un think tank liberale, certo, ma che, proprio per questo avrebbe tutto l’interesse a presentare il Venezuela come un pericoloso covo di bolscevichi, si sommano le analisi di un intellettuale di sinistra onesto come Antonio Moscato, che in Ma che strano socialismo… (MovimentoOperaio190817) elenca alcune tra le numerose contraddizioni del chavismo. Tra queste, aggiungiamo noi, il fatto che i maggiori alleati internazionali del chavismo siano stati dall’inizio paesi come Iran, Russia, Turchia e Cina, la cui economia si fonda sull’assenza dei più elementari diritti democratici, primi tra tutti i diritti sindacali. E che oggi, a differenza dl 2002, il principale puntello di Maduro siano, per ora, i vertici dell’esercito.

Buona parte della sinistra ha scelto consapevolmente di avallare il tentativo del chavismo di accreditarsi come portatore di cambiamenti sociali rivoluzionari. Ma nel tentativo di Chavez di gestire, talora anche rudemente, un compromesso tra la propria base sociale popolare, una parte della borghesia nazionale venezuelana e le grandi compagnie petrolifere internazionali non c’è nulla di rivoluzionario. D’altra parte l’America Latina degli ultimi 20 anni non è stata teatro di mobilitazioni di massa tali da rendere possibili mutamenti sociali strutturali: semplicemente si è trovata nella scia dell’impetuosa crescita economica della Cina, assetata di materie prime di cui l’America Latina è ricca e ha visto crescere corrispondentemente le proprie esportazioni. Così che il surplus di ricchezza prodottosi ha reso possibile la realizzazione di riforme sociali e politiche redistributive. Un contesto di cui si è alimentata una sinistra dalle mille sfaccettature, dal bolivarismo di Chavez, al ‘socialismo andino’ di Evo Morales, passando per il socialismo cristiano di Rafael Correa, fino alla peculiare forma socialdemocrazia incarnata da Lula e dal PT brasiliano, una sinistra cresciuta anche grazie al malessere provocato in precedenza da governi, spesso dittatoriali, voluti dagli USA per imporre le ricette neoliberali degli economisti della Scuola di Chicago in quello che Washington considerava il proprio cortile di casa’. Né più né meno.

Chi in questi anni ci ha dipinto l’America Latina come culla del ‘socialismo del XXI secolo’ così facendo da una parte attribuiva ai vari Chavez, Lula, Morales e Correa meriti che non avevano, dall’altra li caricava della responsabilità di una vera e propria mission impossible, senza minimamente tenere conto delle condizioni oggettive. Un po’ come quando nel 2015 qualcuno si illuse che Tsipras e Varoufakis avrebbero messo in riga la troika, senza avere alle spalle né una mobilitazione di massa in Grecia né alcun sostegno rilevante in Europa. Chi dunque ci raccontava il mito della sinistra latino-americana oggi si trova con un’America Latina ormai in mano alla destra e i superstiti come Maduro ormai al capolinea. Senza capire che il vero problema, che riguarda i settori popolari un tempo chavisti che oggi hanno rotto con Maduro, è se e come questi potranno difendere le proprie condizioni di vita e le proprie libertà politiche di fronte al rapido declino del chavismo e all’avanzata di una borghesia venezuelana, appoggiata da USA e UE, che certo non ha come principale obiettivo quello di restituire loro ciò che Maduro loro ha tolto.

L’articolo è tratto dalla newsletter di PuntoCritico.info, 29 gennaio 2019

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