America
USA, perché la sinistra è donna e potrebbe vincere
Se il 6 novembre con le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti i democratici dovessero ottenere la maggioranza alla Camera e/o al Senato molto probabilmente sarà merito delle donne, elettrici e candidate.
Quest’anno si è battuto ogni record di donne candidate alla camera, sono 185 su 435 distretti e di queste ben 143 sono democratiche. Analisti e commentatori inoltre concordano che il segmento demografico che potrebbe essere determinante sono le donne laureate che statisticamente vanno a votare alle elezioni di metà mandato e che, stando ad un recente sondaggio, dovrebbero votare dem per il 65%.
In aggiunta ci sono ben 254 candidati democratici non in carica e di questi il 50% sono donne. Sembrerebbe proprio che i democratici stiano puntando molto sul rinnovamento e la diversità per cercare di riconquistare gli spazi perduti nell’ultimo decennio. Visto che per essere candidati alla camera negli Stati Uniti bisogna vincere delle elezioni primarie se il ricambio sulla scheda è così consistente vuol dire che almeno gli elettori ideologicamente schierati hanno apprezzato questo rinnovamento. Alcune delle storie dei successi di queste donne democratiche, pensiamo ad Alexandra Ocasio Cortez, sono arrivate fino sulle pagine dei nostri ombelicali giornali ma possiamo scommettere che altre ne arriveranno. Pensiamo a Ayanna Pressley (nella foto con Elizabeth Warren) che diventerà la prima deputata afroamericana del Massachussetts o a Deb Haaland che potrebbe essere la prima deputata native-american e che è candidata in New Mexico.
C’è attesa per un nuovo “Year of the Woman” anche perché negli Stati Uniti, come quasi in tutto il mondo, le donne costituiscono una porzione minoritaria delle assemblee legislative e poter arrivare ad aggiungere 30-40 nuove donne al gruppo dei deputati è qualcosa che verrebbe scritto nei libri di storia.
La scarsa rappresentanza femminile nei parlamenti è un fenomeno che occupa gli scienziati politici da decenni visto che le donne candidate sono in media più qualificate degli uomini e una volta elette sono, sempre in media, più capaci: hanno più anni di esperienza politica alle spalle, riescono a portare più fondi federali nei loro distretti, fanno più proposte di legge, fanno più interventi in parlamento e infine vengono rielette con maggiori probabilità. Le spiegazioni più accreditate sconfinano nella psicologia e nella sociologia: scarsa fiducia in se stesse, stigma sociale e pregiudizio negli elettori che non le ritiene idonee ad un lavoro “maschio” come quello del politico.
È evidente che qualcosa a questo giro è cambiato, se così tante donne hanno deciso di fare un passo in avanti e sfidare nelle primarie deputati di lungo corso, come ha detto Nancy Pelosi a Ocasio Cortez “Thank you for your courage to run. This is not for the faint of heart”. L’ondata di attivismo femminile è sicuramente una risposta all’elezione di Trump e alla minaccia che rappresenta per i diritti delle donne e delle minoranze in generale, ma c’è chi ne ha suggerito una versione meno ovvia e maggiormente legata alle remore delle donne nel farsi avanti: “se l’ha fatto Trump, lo posso fare anche io”.
Inoltre, se ora sono candidate alla camera, queste donne hanno anche già vinto delle primarie, elezioni dove gli stereotipi di genere tendono ad avere un effetto relativamente maggiore poiché è tradizionalmente meno forte l’elemento ideologico (non si sceglie tra democratici e repubblicani). Qui credo siano intervenuti diversi fattori. In primo luogo c’è un effetto trend, con il passare degli anni e l’esposizione ad un numero sempre maggiore di donne in politica anche i pregiudizi si affievoliscono. Secondariamente c’è nella parte sinistra dello spettro politico americano un desiderio di proposte e piattaforme più radicali e connotate e, storicamente, le donne riescono a vincere più facilmente con programmi più progressisti. In ultimo, credo che per una coincidenza della storia i pregiudizi sugli stereotipi di genere abbiano giocato, e giocheranno, a favore delle donne.
Mi spiego, se l’elezione di Trump è frutto di un sentimento di rancore che ha dominato le elezioni del 2016 con l’arroccamento del maschio americano bianco impaurito da tutto ciò che era diverso è anche vero che un porzione dell’elettorato può essersi stufata di una politica intrisa di testosterone e fanfarona. Alcuni analisti hanno evidenziato che serpeggia in certi segmenti demografici, in particolare quello femminile, un desiderio di compromesso, di pragmatismo e minori personalismi. Questo potrebbe in effetti favorire le donne.
Oltre all’effetto Trump, sembra contare anche lo strascico del #metoo e una più generale rinnovata “lotta al patriarcato” e ricordiamoci che il primo “Year of the Woman” della politica americana è stato il 1992, che arrivò dopo la conferma del giudice Thomas alla Corte Suprema nonostante le accuse di molestie sessuali mosse da Anita Hill e che evidenziò come il Senato fosse occupato prevalentemente da uomini. La conferma del giudice Kavanaugh è avvenuta solo poche settimane fa e ha occupato i talk show e ha rinverdito alcune rivendicazioni femminili.
Devi fare login per commentare
Accedi