America

Lo strabismo di Krugman tra giravolte dei repubblicani e voltafaccia di Hillary

8 Agosto 2015

Oggi, il quotidiano “La Repubblica” ha pubblicato la traduzione di un articolo firmato da Paul Krugman sul New York Times: un commento dedicato al dibattito repubblicano di Cleveland, con particolare riferimento alla figura di Donald Trump. Un commento al vetriolo, che – prendendo le mosse dalla performance televisiva – ha sostenuto una tesi ben precisa: l’estremismo del miliardario in parrucca desterebbe scandalo in termini puramente comunicativi ma non sostanziali, in quanto il programma radicale di Trump sarebbe alla fin fine in buona parte sposato da tutti gli altri candidati alla nomination repubblicana. Una pletora di impresentabili,  secondo Krugman, caratterizzati da incoerenza e idee folli: una pletora costretta a sostenere idiozie a causa di un elettorato – quello repubblicano appunto – tacciato di essere credulone, ignorante, fanatico e bigotto. Un pezzo particolarmente duro, come è facile capire. Un commento che, per quanto magari veritiero sotto alcuni aspetti, appare forse – sotto altri – un po’ eccessivo. Semplicistico, se si vuole pensar male; ideologico, se si volesse pensar peggio.

Sarà anche vero che un buon numero degli attuali candidati alla nomination repubblicana risulti costituito da personaggi folkloristici e ai limiti dell’impresentabilità; sarà anche vero che non pochi di loro siano caratterizzati dal fanatismo del “biblically correct” (si pensi soltanto a Ted Cruz); sarà anche vero inoltre che diversi di costoro abbiano espresso non poche incoerenze, cambiando repentinamente idee su numerose tematiche per bieco opportunismo elettorale. Ma è altrettanto indubbio che simili problemi non riguardino soltanto la compagine repubblicana e come alcune delle posizioni espresse debbano essere comunque contestualizzate, per essere comprese fino in fondo, con onestà e oggettività.

Krugman si scandalizza innanzitutto per le professioni di fede ultracristiana espresse da praticamente tutti i partecipanti al dibattito: accusandole di bigottismo e opportunismo. Ora, premesso che non rientra nei miei poteri saper giudicare la sincerità della fede altrui, ammettiamo pure che tutte quelle manfrine religiose fossero dettate da calcoli di strategia politica. E allora? Ogni analista politico degno di questo nome sa perfettamente che durante la corsa per la nomination i candidati devono fare appello all’elettorato più duro, ammorbidendosi poi in sede di general election, per cercare di conquistare il centro moderato. È una strategia messa in campo tanto dai repubblicani (che da anni devono fare sempre più i conti una base spesso in mano alla religious right) ma anche dai democratici: come mai altrimenti Hillary Clinton, da sempre donna vicinissima ai salotti di Wall Street, sono mesi che attacca il mondo finanziario? E’ rimasta folgorata sulla via di Rosa Luxemburg? O forse, molto più probabilmente, sta cercando di accattivarsi le simpatie dei democratici radicali, storicamente molto più vicini a Bernie Sanders?

Krugman attacca poi il GOP, asserendo che sarebbe in preda a idee balzane su un elevato numero di problematiche. Ambiente, economia e politica estera. Ora, è assolutamente legittimo pensarla diversamente su queste materie: ma screditarle alla base come folli, forse è un po’ esagerato.

Prendiamo l’ambiente: se sotto alcuni aspetti la posizione di alcuni repubblicani sulla questione sfiora oggettivamente il ridicolo (pensiamo a Bobby Jindal che ha sostenuto come la teoria del global warming sarebbe il frutto di un complotto ordito dal potere federale per limitare la libertà individuale), dall’altra parte è tuttavia chiaro che punto essenziale per molti candidati GOP sia quello – tutt’altro che insignificante – dell’indipendenza energetica. Questo per dire, che talvolta, dietro le posizioni di alcuni repubblicani non ci sono solo le lobby brutte e cattive che tramano alle spalle del popolo. Ma che possano esserci magari anche degli argomenti più ragionati.

Sull’economia poi, il premio Nobel lascia perplessi. Dopo aver giustamente attaccato il “programma” economico di Trump (definendolo un accrocco di liberismo e protezionismo di impronta puramente demagogica), arriva a sostenere che tale programma sarebbe assimilabile a quello di Jeb Bush: anzi, dall’articolo, veniamo a sapere che la linea economica di Bush sarebbe quella di un’accesa “Voodoo Economics”.

Un momento, cerchiamo di ragionare. Fin qui sapevamo che la “Voodoo Economics” fosse locuzione dispregiativa per designare la supply side economics reaganiana, fortemente improntata a defiscalizzazione, deregulation e sfrenato liberismo. Una politica economica che – a ben vedere – Jeb Bush (anche da governatore della Florida) non ha mai portato avanti, prediligendo un approccio di “compassionate conservatism”: un conservatorismo, cioè, non estraneo a misure di carattere statalista. Un conservatorismo che gli ha per questo attirato da sempre critiche dalla destra del GOP, che lo considera – per questo – troppo centrista e moderato. Un conservatorismo che – ricordiamolo – risulta totalmente in linea con la politica economica della dinastia Bush. Non dimentichiamo che il fratello, George Walker, nel 2007, allo scoppio della crisi, salvò le banche al collasso con una cospicua immissione di denaro pubblico, attirandosi così le critiche dei liberisti ortodossi.

E vogliamo parlare del padre, G. H. Bush? Da sempre su posizioni economiche centriste e aperte allo statalismo, non arrivò mai a supportare del tutto la  supply side economics di Reagan. Anzi, Krugman dovrebbe ricordare che la definizione spregiativa “Voodoo Economics” (che ora lui utilizza con una certa nonchalance contro Jeb) fu coniata proprio dal medesimo Bush padre, durante la campagna elettorale per la nomination repubblicana del 1980, che lo vedeva aspramente contrapposto – guarda caso – allo stesso Ronald Reagan.

Passiamo alla politica estera. Krugman è padronissimo di sostenere che la politica estera dei repubblicani non gli vada a genio. Sennonché dovrebbe essere forse un tantino più preciso e meno sommario, visto che con diciassette candidati in campo non si può certo parlare di un unico programma di foreign policy: la politica estera di Bush non è quella di Paul, così come quella di Graham differisce (e non poco) da quella di Christie (soprattutto per quanto concerne l’Iran).

Infine una parola sull’incoerenza. Chi nega che Trump sia una banderuola che ha cambiato idea su schieramento politico, fede religiosa e aborto? Chi nega la giravolta di Scott Walker sull’immigrazione? Chi le recenti (e strumentali) radicalizzazioni di Rubio sulle materie eticamente sensibili? Benissimo.

Ma l’incoerenza è solo repubblicana? Non risulta, visti i voltafaccia attuati da Hillary Clinton su un imprecisato numero di questioni politiche. Finanza: dapprima vicina a Wall Street e, in particolare, a Goldman Sachs, oggi Clinton è improvvisamente diventata paladina anti-finanza, imitando la radicale Elizabeth Warren. Politica estera: nel 2002 da senatrice del New York appoggiò risolutamente l’invasione irachena, proposta da Bush, oggi invece la critica aspramente. Senza poi contare la sua capriola sull’Iran: da “stato canaglia” ad alleato imprescindibile nel giro di pochi mesi. Matrimonio omosessuale: da sempre fortemente fautrice della famiglia tradizionale, per anni ha avversato una legislazione federale a favore del same sex marriage, asserendo che della questione si dovessero occupare i singoli stati. Da un paio di mesi, ha cambiato idea. Economia: storicamente sostenitrice della Terza Via (portata avanti dal marito Bill), oggi si è riscoperta statalista, per cercare di arginare la concorrenza del socialista Bernie Sanders.

Tutto questo semplicemente per dire che le divisioni manichee non appartengono al mondo della politica: che le critiche legittime dovrebbero essere sempre accompagnate ad argomentazioni solide, fatti oggettivi e onestà intellettuale. Altrimenti si entra nel campo delle illazioni e delle sparate gratuite. Ma queste le può fare chiunque. Non c’è bisogno di un Nobel.

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