America
USA 2016, Trump e i musulmani
Nihil novum sub sole. Le recenti dichiarazioni di Donald Trump sui musulmani all’indomani della strage di San Bernardino (in California) hanno innescato un’ondata di polemiche. In linea con le sue proposte in tema di immigrazione non propriamente aperturiste (vuole costruire un muro al confine col Messico e deportare circa undici milioni di immigrati irregolari), lunedì scorso il fulvo magnate ha sostenuto la necessità di vietare temporaneamente l’ingresso negli Stati Uniti a tutti gli islamici: almeno fin quando non si riuscirà a capire perché vi sarebbero numerosi musulmani desiderosi di compiere atti violenti sul suolo statunitense.
Che i rapporti tra Trump e la comunità islamica (così come con gran parte delle minoranze) non fossero esattamente idilliaci d’altronde lo si era già capito. In particolare, quando alcuni giorni fa affermò di sapere che diversi gruppi musulmani avrebbero apertamente festeggiato all’indomani dell’11 settembre. E del resto, le attuali dichiarazioni del magnate si immettono all’interno di una linea in buona sostanza già avanzata dai candidati più radicali alla nomination repubblicana (come l’ex neurochirurgo Ben Carson).
E – come al solito – un profluvio di critiche è piovuto addosso alla bionda chioma del miliardario. Esattamente come quando negò che John McCain fosse un eroe di guerra e quando sommerse la giornalista Megyn Kelly di battutaccie sessiste durante il primo dibattito televisivo in agosto. E nuovamente assistiamo al solito copione. Da una parte l’establishment del partito che si indigna. Candidati alla nomination come Jeb Bush e Marco Rubio (da sempre morbidi sulla questione dell’immigrazione) hanno condannato la proposta di Trump come estranea ai valori americani. E sulla stessa linea si sono collocati i big dell’Elefantino, da Dick Cheney a Bob Dole. Poi però sono arrivati i primi distinguo: e così i candidati più vicini alla religious right hanno iniziato un complicato minuetto, per accattivarsi le simpatie dell’elettorato ultraconservatore (che sembra approvare le parole di Trump), cercando al contempo di evitare di cucirsi addosso una patina di impresentabilità.
Abbiamo così Rick Santorum che afferma di non voler vietare l’ingresso negli Stati Uniti a tutti i musulmani ma semmai a “molti” di essi, criticando una troppo blanda concessione dei visti. C’è poi Mike Huckabee che esprime dubbi sulla costituzionalità della proposta di Trump ma che si dice d’accordo nell’aumentare i controlli sull’immigrazione islamica. Infine Ted Cruz che – con una certa maestria logica – riferendosi alla proposta del magnate dichiara “This is not my policy“ma poi lo elogia come un candidato che avrebbe il merito di interessarsi ai veri problemi degli americani. E alla fine lo stesso Rubio ha tenuto a precisare che non esisterebbe un problema di discriminazione anti-islamica in America.
E quindi, al di là delle manfrine dei contender repubblicani e dei commenti indignati dei liberal sul New York Times, banalmente le reazioni all’ennesima proposta di Trump esemplificano la solita situazione: quella di un Elefantino che deve fare i conti con una quota elettorale radicalizzata e che – soprattutto nelle sue frange più moderate – sembra al momento non riuscire a esprimere posizioni energiche e realmente alternative alle sparate dell’antipolitica. Manifestando così un atteggiamento ambiguo col solo risultato di rafforzare Trump: il quale difatti continua a volare indisturbato nei sondaggi.
Perché alla fine non ha senso interpretare l’attuale posizione del magnate sull’Islam ricorrendo a elucubrazioni intellettualoidi sul sogno americano o sullo scontro di civiltà: il problema qui è comunicativo. E questo Trump lo sa bene: perché è a forza di simili sparate, orgogliosamente avverse a un politically correct dominante, che è riuscito ad accrescere il proprio consenso. Ma il problema è anche politico: perché questa retorica affonda le proprie radici nell’incapacità dell’establishment di fornire risposte concrete o quantomeno credibili alle esigenze che pervadono la società americana. Perché se non si è in grado di fornire alternative vere o – peggio – ci si mette a rincorrere il nemico sul suo stesso terreno, allora non ci si può lamentare poi dei suoi exploit e della sua forza crescente. E il miliardario difatti ha rincarato la dose: affermando proprio ieri di essere la cosa peggiore che potesse capitare allo Stato Islamico. Il fatto che poi abbia in passato costantemente ribadito di lasciare alla Russia il compito di smantellare militarmente il Califfato, beh, questo non conta!
Ed è proprio qui il vero nodo. Non il linguaggio sguaiato e politicamente scorretto ma la capacità politica. Perché quando costruisci una campagna elettorale sui feticci e non comprendi le relazioni che collegano la politica interna con quella estera, è difficile poi sapere concretamente affrontare i problemi. Soprattutto quello del terrorismo jihadista.
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