America
USA 2016, scontro sull’immigrazione tra Hillary, Bush e Trump
Una delle questioni notoriamente più spinose del dibattito elettorale per le presidenziali del 2016 è senza dubbio quella dell’immigrazione. Una tematica scottante e tanto più urgente, se letta alla luce del suo consistente aumento nel corso degli ultimi anni. Un’immigrazione cospicua e in gran parte derivante dall’America Centrale, che pone sul tavolo le aggrovigliate problematiche dell’illegalità e della regolamentazione. Il tutto, nell’ambito di una nazione in cui il peso elettorale delle minoranze etniche (dagli afroamericani agli ispanici) si fa sempre più incisivo.
In virtù di ciò, si comprende allora come il tema dell’immigrazione rappresenti un profondo elemento divisivo all’interno dell’offerta programmatica dei vari candidati. Un elemento tuttavia dirimente e proprio per questo fondamentale, su cui ogni contender è chiamato a pronunciarsi nella maniera più chiara possibile. Pronunciamenti ovviamente tra loro molto diversi, che vanno da posizioni tendenzialmente aperturiste (o comunque moderate) a orientamenti di natura più radicale e massimalista.
La front runner democratica, Hillary Rodham Clinton, ha notoriamente un programma piuttosto aperto sul tema, avendo a più ripreso sostenuto la necessità di una riforma sistematica dell’immigrazione, che tuteli gli immigrati irregolari (nella fattispecie i cosiddetti DREAMers) dal pericolo delle deportazioni, garantendo loro un percorso legale per l’acquisizione della cittadinanza. Una posizione forte, che l’ex first lady tende a presentare come una vera e propria riproposizione del sogno americano. In tal senso, ha duramente attaccato il radicalismo del candidato repubblicano Donald Trump, su posizione assolutamente contrarie ad ogni tentativo di regolamentazione dell’immigrazione clandestina: un’immigrazione che – secondo il miliardario – dovrebbe essere contrastata anche (e soprattutto) attraverso l’edificazione di un muro al confine col Messico (muro che – secondo lui – il Messico stesso dovrebbe pagare).
Prendendo le mosse da queste dichiarazioni (che Trump ripete ormai ossessivamente dal 2012), l’ex first lady non soltanto ha accusato il miliardario (un tempo suo amico e finanziatore) esplicitamente di “razzismo”. Ma con abile mossa strategica sta anche cercando di far passare l’idea che tutto il GOP sarebbe più o meno attestato su queste posizioni estremiste e retrive. Da qui il suo recente attacco a Jeb Bush: il 9 luglio, nel corso di un’intervista rilasciata alla CNN, Hillary ha infatti dichiarato che il moderatismo di Jeb sulla questione dell’immigrazione sarebbe soltanto di facciata e che le sue idee in materia risulterebbero in realtà pericolosamente simili a quelle di Trump.
L’elemento dirimente, per lei, risiederebbe proprio nel processo legale di acquisizione della cittadinanza (il cosiddetto “path to citizenship”): la Clinton ha difatti asserito che mentre questo processo risulti punto essenziale del proprio programma, non altrettanto avverrebbe in quello di Bush, da lei tacciato di conservatorismo e di sostanziale anacronismo. E in tal senso, secondo l’ex first lady, si manifesterebbe la sordida equazione tra Jeb e Trump: danarosi destrorsi, dalle idee retrograde.
Ora, se da una parte queste affermazioni della Clinton appaiono esagerate ed essenzialmente dettate da ragioni di retorica politica, dall’altra è altresì indubbio che il programma di Bush sull’immigrazione non brilli ad oggi per chiarezza. Da sempre su posizioni tendenzialmente aperturiste e morbide, Jeb – dai tempi in cui era governatore della Florida – ha sempre cercato di accattivarsi le simpatie delle minoranze etniche. Lo ha fatto per esempio con gli afroamericani, ottenendo risultati ambigui: se oggi difatti c’è una parte della “Miami National Urban League” che loda pubblicamente il suo impegno a favore dell’integrazione e della tutela verso i neri, dall’altra vi sono comunque quote elettorali afroamericane che – di contro – non hanno di lui alcuna stima.
Ma la minoranza cui Jeb guarda da sempre con maggiore interesse è quella degli ispanici: un’etnia sempre più decisiva sul fronte elettorale (si attesta oggi intorno al 10%). Un’etnia che è comunque quella maggiormente legata al fenomeno dell’immigrazione clandestina: fenomeno contro cui – storicamente – larga parte del GOP si batte in modo particolarmente strenuo.
Sin dall’inizio di questa campagna, dunque, Bush si è trovato davanti al problema di dover comporre due elementi contraddittori: presentare da una parte posizioni aperturiste sull’immigrazione, per corteggiare il voto ispanico; enfatizzare, dall’altra, il tema della sicurezza e della legalità, per non alienarsi le simpatie della destra conservatrice. Da qui un programma composito ma poco chiaro, che assembla entità eterogenee, al limite della contraddizione o – peggio ancora – della confusione. Si prenda il caso del “path to citizenship”, ad esempio.
La risposta di Jeb alle accuse di Hillary è consistita nell’asserire la necessità per gli irregolari non di acquisire la cittadinanza ma semmai di ottenere un “legal status” che – a determinate condizioni – permetta loro di “uscire dall’ombra”. Una posizione che, giudicata in sé stessa, non sembrerebbe neanche così malvagia, sennonché – sul piano politico – ha finito con l’attiragli accuse da sinistra (si veda la Clinton) e da destra (Trump lo ha a più riprese tacciato di essere un debole centrista).
Tant’è che l’ex governatore della Florida si è poi sentito in dovere di controbilanciare le sue aperture alla (pur parziale) regolamentazione dei clandestini, enfatizzando la necessità di incrementare la sicurezza interna. Ha difatti presentato recentemente un piano di controllo dei confini, essenzialmente basato sull’utilizzo delle nuove strumentazioni tecnologiche e l’impiego di infrastrutture innovative: il tutto accompagnato da un dispiegamento ottimizzato degli agenti a disposizione. Bush ha comunque sempre ribadito come l’immigrazione rappresenti una chiara risorsa in termini economici, tacciando ogni posizione barricadiera come inaccettabile e dannosa.
In tal senso, è chiaro come Hillary – sul fronte opposto – si sia mossa meglio per quanto concerne il problema dell’immigrazione. Contrariamente ad altri ambiti (come quello finanziario) è difatti riuscita a schierarsi abbastanza nettamente e a non differenziarsi troppo, rispetto al suo maggiore competitor di sinistra, il socialista Bernie Sanders. Laddove Bush resta ancora bersaglio di una destra repubblicana che – guidata da Trump – non ne tollera il centrismo.
Che il maggiore dissidio tra i tre candidati più forti in termini di gradimento nei sondaggi sia dovuto all’immigrazione, evidenzia una volta di più come si tratti di un tema assolutamente cruciale. Un tema cruciale che suscita risposte opposte, ora radicali ora ragionate: ora energiche ora pallidamente deboli. Un tema angoscioso, dilaniato tra il dramma di chi disperatamente insegue un sogno e l’inquietudine di chi si sente indifeso e abbandonato dalle istituzioni. Una questione epocale, tristemente destinata a risolversi nella spasmodica ricerca di qualche voto in più.
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