America
USA 2016, scontro sulla Cina
Stati Uniti. Dopo l’Iran e Cuba, una nuova problematica geopolitica sta drammaticamente ponendosi al centro del dibattito elettorale per le presidenziali del 2016: la questione cinese. Un groviglio incandescente di polemiche sta energicamente montando in queste ore tra i candidati di entrambi i maggiori schieramenti: un groviglio incandescente che potrebbe preludere ad una svolta brusca nelle relazioni sino-americane. Relazioni, che – è bene ricordarlo – sono sovente apparse tortuose e complicate ma che oggi sembrerebbero dirigersi verso l’esplosione di un nuovo scontro.
Complice primariamente la crisi borsistica che ha sconvolto la Repubblica Popolare all’inizio di questa settimana, è stato innanzitutto il Partito Repubblicano ad aver avviato una serie di critiche serrate non soltanto contro il governo di Pechino ma anche contro la visita del premier Xi Jinping al presidente Barack Obama, prevista per il mese prossimo. Una serie di critiche abbastanza convulse e non poco confuse, che – a ben guardare – spaziano dall’economia alla politica, passando per i diritti umani: critiche che vanno a condensare insieme anni di polemiche e reciproci fraintendimenti ma che – allo stato attuale – non sembra chiaro dove effettivamente vogliano andare a parare.
Si va dal governatore del New Jersey, Chris Christie, che attacca Obama per aver incrementato la dipendenza statunitense verso la Cina (attraverso l’aumento del debito), all’ex governatore dell’Arkansas, Mike Huckabee, che su Twitter denuncia l’incapacità del presidente nel tutelare l’economia americana. Al coro polemico si aggiunge poi la voce di Marco Rubio che – membro della commissione Esteri al Senato – inchioda Pechino alle proprie responsabilità sulla questione dei diritti umani, tacciandola inoltre di costituire un pericolo in termini di sicurezza nazionale a causa dei cyber-attacchi recentemente lanciati.
Particolarmente duro, ancora, Scott Walker, il quale ha esplicitamente richiesto che Obama annulli la visita di Xi Jinping: richiesta invero poco realistica, che ha imbarazzato diversi esponenti dello stesso establishment repubblicano e che mette in luce – ancora una volta – l’inadeguatezza dell’attuale governatore del Wisconsin soprattutto nelle questioni di carattere internazionale.
In tutto questo profluvio di dichiarazioni, non poteva certo mancare la voce di Donald Trump. Ancora una volta in barba al politically correct, il magnate in parrucca ha affermato che Obama non dovrebbe ricevere Xi Jinping con tutti gli onori ad una cena di gala ma che sarebbe invece più opportuno invitarlo a mangiare da McDonald. D’altronde, il premier cinese non meriterebbe nulla di meglio di un Big Mac, ha chiosato Trump, rispolverando uno dei suoi vecchi cavalli di battaglia.
Sebbene difatti l’attenzione mediatica si sia di recente pressoché completamente concentrata sul suo programma in materia di immigrazione clandestina (e – conseguentemente – sulle sue polemiche contro il Messico), non bisogna dimenticare che da tempo la questione cinese costituisca un punto nevralgico della sua agenda politica. E’ almeno dal 2012 che difatti sostiene la necessità di contrastare l’economia di Pechino attraverso un programma protezionistico, essenzialmente finalizzato all’innalzamento di duri dazi sui prodotti cinesi. Un protezionismo che – pur mutatis mutandis – è invocato anche da Bernie Sanders a sinistra.
Sennonché, nonostante questa levata di scudi, il GOP non appare certo solo in questa sua attuale crociata contro la Repubblica Popolare. Tanto che – secondo Nahal Toosi oggi su “Politico” – una simile reazione da parte di tutti questi candidati repubblicani, sarebbe (almeno in parte) dettata dalla volontà di inasprire la concorrenza nei confronti di Hillary Clinton: quella stessa Hillary Clinton che è generalmente considerata dall’opinione pubblica americana un vero e proprio falco nei rapporti con la Cina. E difatti le relazioni tra Pechino e i Clinton non sono mai state delle migliori.
Innanzitutto, è bene ricordare come il momento più basso nei rapporti tra Stati Uniti e Cina abbia coinciso proprio con la presidenza di Bill Clinton. Dopo la storica apertura promossa da Nixon e Kissinger all’inizio degli anni ’70, le relazioni sino-americane – pur tra mille problemi, controversie, turbolenze e fraintendimenti – si sono mantenute relativamente stabili e proficue sino al 1989, con gli scontri di Piazza Tienanmen. Scontri che per la prima volta posero drammaticamente sul tavolo la questione dei diritti umani e che spaccarono letteralmente la politica statunitense in due filoni avversi: chi voleva imporre un processo democratico alla Repubblica Popolare e chi – di contro – in nome del realismo, riteneva doveroso proseguire le relazioni sino ad allora instaurate. L’allora presidente G. H. Bush dovette barcamenarsi difficoltosamente tra queste due anime: pose energicamente l’accento sulla questione dei diritti umani ma avviò al contempo una trattativa conciliante con Deng Xiaoping.
Le cose cambiarono bruscamente dal ’93, con l’insediamento di Bill Clinton alla Casa Bianca. Il nuovo presidente si impuntò sulla questione dei valori universali e subordinò il rinnovo dello status di Most Favoured Nation per la Cina al rispetto dei diritti umani e alla creazione di organismi democratici. Pechino intese la cosa come un ricatto e le relazioni tra le due potenze rischiarono di naufragare irrimediabilmente: tanto che nel ’94 Clinton tornò sui suoi passi, inaugurando un clima di maggior distensione. Poi, a metà degli anni ’90, un nuova crisi: le ambigue aperture clintoniane in favore di Taiwan, guastarono nuovamente i rapporti con Pechino che – per tutta risposta – avviò una serie di simulazioni militari a scopo dimostrativo sulla costa della provincia di Fujian. Di nuovo, la rottura diplomatica fu evitata per un soffio. Infine, nel 1999, durante la guerra del Kosovo, un bombardiere americano distrusse l’ambasciata cinese a Belgrado, scatenando una furente reazione da parte di Pechino.
E Hillary, dal canto suo, non è certo da meno. Non solo in piena campagna elettorale, ha recentemente ribadito tutta la propria diffidenza nei confronti del governo di Pechino: a giugno scorso per esempio l’ha esplicitamente accusato di manovrare dei cyber-attacchi contro gli Stati Uniti. Ma durante il suo quadriennio da segretario di Stato non ha mai mostrato eccessiva simpatia verso la Cina, enfatizzando anche lei il problema dei diritti umani (per esempio in riferimento al Tibet) e forzando talvolta la mano nelle relazioni, laddove Obama avrebbe invece preferito un approccio più cauto. Una posizione ben più battagliera dunque, di quella precedentemente assunta dall’amministrazione di George Walker Bush: il quale – sulla scorta paterna – ha generalmente cercato di intrattenere con Pechino legami pragmatici, quantunque talvolta ambivalenti.
Una posizione, quest’ultima, che sembrerebbe essere stata fatta propria anche dal fratello, Jeb Bush. Nel corso degli ultimi mesi, Jeb ha difatti più volte ribadito la necessità di consolidare le relazioni (diplomatiche e commerciali) con la Cina, anziché innalzare barricate. In particolare, nel corso di un’intervista rilasciata a inizio luglio, ha giustificato l’apertura ad un paese evidentemente non democratico come la Repubblica Popolare, asserendo che essa comunque garantisca un ritorno: diventando un partner commerciale non soltanto per gli Stati Uniti ma per tutta la comunità internazionale (cosa, questa, che non potrebbe per lui dirsi in riferimento alla distensione con Cuba).
Una posizione che – se confermata – risulterebbe isolata o – quantomeno – fortemente minoritaria all’interno dell’attuale dibattito politico statunitense: un dibattito – lo abbiamo visto – al momento orientato (tanto a destra quanto a sinistra) verso prospettive economiche e geopolitiche smaccatamente avverse alla Cina. Una via pragmatica che dovrà tuttavia ben presto chiarire il prezzo da pagare in termini di diritti umani e democrazia. Ma che – al contempo – potrebbe rivelarsi l’unica concretamente percorribile in uno sfondo futuro di incertezza globale.
Perché, come ricorda Henry Kissinger, una politica pregna di princìpi astratti e disancorata dalla concretezza genera soltanto illusioni. Ingenue, futili e pericolose.
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