America

USA 2016, scintille tra Hillary Clinton e Jeb Bush in Florida

1 Agosto 2015

Hillary Clinton va all’attacco di Jeb Bush. E ci va giù duro. Ieri a Fort Lauderdale (in Florida), si è tenuto un evento organizzato dalla “National Urban League”, storica associazione statunitense, finalizzata alla difesa dei diritti civili degli afroamericani. Un evento di fondamentale importanza in termini elettorali, che – non a caso – ha attirato i maggiori contender della corsa per le presidenziali del 2016, in particolare Jeb Bush e Hillary Clinton: entrambi alla disperata ricerca del voto afroamericano.

Da una parte, Hillary sta cercando di ampliare il proprio bacino elettorale in quell’area. Recenti sondaggi della CNN hanno mostrato come l’ex segretario di Stato eserciti una profonda attrattiva per il voto bianco: non a caso sarebbe attualmente molto forte negli stati a larga maggioranza bianca (come Iowa e New Hampshire). Senza poi contare che in questi mesi si è particolarmente concentrata sul voto femminile, trascurando le quote elettorali afroamericane, ampiamente corteggiate invece da Bernie Sanders. In tal senso, la partecipazione all’evento di ieri evidenzia il chiaro intento da parte di Hillary di recuperare terreno nell’ambito di un’area che – diciamocelo – non ha mai mostrato di amarla eccessivamente (soprattutto dal 2008: dall’epoca dello scontro con Obama).

Ma anche Bush aveva le sue ragioni per prendere la parola all’evento della National Urban League. Ragioni che si inseriscono nella più generale strategia di aprire il Partito Repubblicano a frange elettorali nuove, tentando di allargare il consenso, attraverso un’immagine di futuro e rinnovamento. Un rinnovamento che si distacchi da schematismi logori e che sperabilmente isoli le frange più radicali dell’Elefantino. A questo si aggiunga poi che l’evento – come detto – si è tenuto in Florida, stato di cui notoriamente Jeb è stato governatore dal 1999 al 2007. E per quanto non si possa magari dire giocasse propriamente in casa (la Florida – ricordiamolo – soprattutto negli ultimi anni si è trasformata in un “swing state”), un minimo di supporto è innegabile lo avesse. Tanto che, giovedì scorso, Willard Fair (CEO della “Miami National Urban League”), si era sperticato in elogi a favore di Bush, asserendo come avesse attuato – da governatore – ottime politiche per gli afroamericani del Sunshine State.

La prima a prendere la parola è stata l’ex first lady, la quale non ha perso tempo e ha attaccato vigorosamente il rivale repubblicano, sostanzialmente tacciandolo di contraddittorietà e incoerenza. E i suoi strali si sono – non a caso –  appuntanti sullo slogan scelto da Jeb: “right to rise”. La Clinton l’ha dunque attaccato, sostenendo che non può esserci vera possibilità di crescita per chi si oppone ad una riforma sanitaria maggiormente orientata al sociale (come l’Obamacare) e per chi contrasta l’aumento del salario minimo. Ha inoltre accusato Jeb di aver penalizzato – da governatore – gli afroamericani nell’accesso ai college e di averli ostacolati nell’acquisizione del diritto di voto.

Una serie di critiche pesantissime che testimoniano come Hillary consideri ancora Bush il proprio vero rivale nella corsa per la Casa Bianca, per quanto da settimane – tra il serio e lo scherno – continui a ripetere che il front runner repubblicano sia ormai Donald Trump. Accuse pesanti, cui Bush, che ha preso la parola poco dopo, non ha direttamente replicato. Innanzitutto ha ringraziato la Clinton per la propria presenza, limitandosi poi – durante il suo discorso – ad abbozzare soltanto una mezza risposta: ricordando, cioè, il suo impegno – da governatore – nella riforma dell’istruzione. Ha poi sottolineato come nel 2002 approvò la rimozione della bandiera confederata dal palazzo parlamentare.

Un discorso dai toni soft, quindi, che ha evitato una replica diretta all’ex segretario di Stato. Una scelta che – secondo Annie Karni e Eli Stokols oggi su Politico – esemplificherebbe l’attuale strategia di Jeb: presentarsi come candidato presidenziale e inclusivo, soprattutto per differenziarsi dalla maggioranza dei suoi rivali repubblicani radicali, sempre con la bava alla bocca e costantemente pronti ad azzannare Hillary per qualsiasi cosa dica o faccia. In tal senso, il discorso di Bush vorrebbe – una volta di più – comunicare un’idea rinnovata del GOP: un partito, cioè, non più sulla difensiva ma propositivo, un partito non più sulle barricate ma aperto al futuro. Non a caso, qualche giorno fa, l’ex governatore ha rimarcato la propria distanza da Donald Trump, negando di essere un “candidato mosso dal risentimento”.

Come che sia, sondaggi e interviste mostrano una spaccatura all’interno dell’elettorato afroamericano della Florida. C’è chi apprezza Bush, lodando le sue passate politiche governatoriali, giudicandole inclusive e benefiche. C’è chi invece lo critica, tacciandolo di aver fomentato la disuguaglianza, minando la tutela dei diritti civili (soprattutto nel campo dell’istruzione, considerata troppo elitaria). C’è chi poi ancora lo accusa di aver attuato dei brogli elettorali nel 2000 con lo scopo di far vincere il fratello nella corsa per la Casa Bianca. Un filone anti-Bush che non risulta tuttavia compatto. Pur dichiarandosi tendenzialmente democrat (l’unico afroamericano repubblicano oggi candidato, Ben Carson, difatti se lo filano in pochi), questa corrente non è omogeneamente pro Clinton: anzi, una sua buona fetta appare fortemente attratta da Sanders che – come detto – non ha perso tempo e da settimane la corteggia strenuamente.

Una situazione – questa della Florida – che si ritrova sostanzialmente simile a livello nazionale, dove tuttavia sicuramente il GOP avrà una difficoltà ancor maggiore a conquistarsi l’appoggio dell’elettorato afroamericano. Soprattutto se continuerà a fare del radicalismo il proprio dissennato vessillo.

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