America
USA 2016, perché Hillary Clinton non parla di politica estera?
La strategia elettorale di Hillary Clinton sembra aver imboccato la giusta direzione. Nonostante la bufera mediatica che l’ha investita tra marzo e aprile, in queste settimane l’ex senatrice del New York sta rinvigorendo la sua posizione e risalendo in quei sondaggi che sino a poco tempo fa la davano in gradimento assai scarso presso buona parte dell’elettorato statunitense.
Dopo aver compreso come la propria consueta immagine di moderatismo la danneggiasse (con il rischio di venire costantemente associata agli interessi dell’establishment e dell’alta finanza americana), con il discorso tenuto due settimane fa a Roosevelt Island, Hillary ha deciso per una radicale svolta a sinistra: una svolta tattica, evidentemente coniugata alla sua camaleontica tendenza all’appropriazione di idee e battaglie altrui.
Lei, che nel 2008 la criticò profondamente, oggi celebra la sentenza della Corte Suprema sull’Obamacare. Lei, che sempre nel 2008 strizzava l’occhio a produttori e detentori d’armi, dopo Charleston è diventata paladina del più ferreo gun control e di una strenua opposizione al razzismo. Lei, che si è sempre detta contraria ad una legislazione federale sul same sex marriage, plaude oggi a una sentenza che ha stabilito esattamente il contrario (tanto che il suo rivale democrat, Martin O’Malley – da sempre favorevole alle unioni omosessuali – potrebbe avere buon gioco magari a ricordarglielo).
Veramente abile. Non c’è che dire. Anche perché Hillary sta di fatto costruendo una campagna su meriti e conquiste che non sono certo suoi. Eppure – al netto dell’opportunismo e dell’evidentissima disonestà intellettuale – bisogna riconoscere che questa strategia si sta rivelando efficace, anche perché – al momento – non sembra incontrare alcuna opposizione. Una strategia che ciononostante – a ben vedere – un punto debole lo presenta: un tallone d’Achille che potrebbe rivelarsi forse l’unica possibilità cui il GOP possa concretamente ricorrere nel corso di questa campagna elettorale. Stiamo parlando della politica estera.
Eh sì, perché effettivamente nella strategia elettorale di Hillary un problema c’è: com’è possibile che la front runner democratica, favorita non solo nell’acquisizione della nomination da parte del suo partito ma anche nella conquista della Casa Bianca, ad oggi si limiti nei suoi discorsi esclusivamente alla politica interna, evitando anche soltanto di sfiorare le questioni estere? Un evidente paradosso, soprattutto se riflettiamo sul fatto che questa campagna elettorale – contrariamente a quella del 2012 – sembra destinata a dover trattare un gran numero di problematiche inerenti alla foreign policy: dall’Iran a Cuba, passando per lo Stato Islamico.
Ebbene, dinanzi ad un simile groviglio di urgenze internazionali, lascia quantomeno perplessi che ad oggi non si possa ancora conoscere il programma dell’ex first lady su questa materia. Un dettaglio che desta un seppur minimo senso di inquietudine. Perché dunque questa reticenza? Perché questo alone di mistero? Perché questo vuoto in una questione tanto cruciale per l’America, soprattutto nell’attuale, scottante, situazione geopolitica? Un vuoto ulteriormente alimentato dal paradosso di una candidata, che nel suo curriculum può vantare un’esperienza quadriennale come segretario di Stato, durante il primo mandato presidenziale di Barack Obama.
Ebbene, la prima risposta a questa serie di domande affonda le sue radici nella più immediata contingenza: la paura di scoperchiare nuovamente il vaso degli scandali. Notoriamente difatti le più gravi controversie che ruotano attorno alla figura di Hillary sono ascrivibili proprio al suo ruolo di segretario di Stato.
Innanzitutto la pessima gestione della situazione in Libia, che sfociò drammaticamente nel caso di Bengasi (allorché trovò la morte l’ambasciatore statunitense).
Poi abbiamo la questione delle email: anziché utilizzare durante il suo mandato l’account ufficiale di posta elettronica (come prescrive la legge), la Clinton ha fatto ampio uso di quello personale ed è recentissima notizia che svariate migliaia di email (presumibilmente d’interesse nazionale) sono andate perdute. E la scusa che si trattasse di corrispondenza privata, concernente le lezioni di yoga, ci lascia dubbiosi sul fatto che la Clinton possa veramente reputare l’opinione pubblica (statunitense e mondiale) tanto scema da crederle.
Infine troviamo la torbida gestione della Clinton Foundation che sembra abbia ricevuto finanziamenti da paesi stranieri anche durante il suo mandato da segretario di Stato. Un evidente conflitto di interessi, ulteriormente aggravato dal fatto che alcuni di quei paesi si chiamano Arabia Saudita e Qwait. Paesi in cui la condizione femminile non può certo definirsi delle più progredite: ma questo forse la paladina femminista Hillary non lo sa.
Tuttavia, al di là della pur decisiva questione degli scandali, i problemi della Clinton in politica estera potrebbero rivelarsi di portata molto più ampia e – per così dire – strutturale. Come abbiamo difatti accennato, negli ultimi mesi Hillary ha optato per una vigorosa virata a sinistra su numerose tematiche di politica interna, cercando così di accattivarsi le simpatie degli elettori liberal più radicali (alla Elizabeth Warren). Il problema che le si pone dinanzi è allora quello di coniugare questo suo voltafaccia politico nelle questioni socio-economiche con le posizioni che sino a ieri ha tenuto in materia di foreign policy: posizioni che non si sa effettivamente quanto possano essere apprezzate dall’elettorato maggiormente radical. Posizioni fortemente interventiste e belliciste, che si sono man mano concretate durante la sua attività politica nel corso degli anni.
Nel 2003, da senatrice, votò difatti a favore della guerra in Iraq: scelta che la perseguitò negli anni a seguire e che la rese poi facile bersaglio di Barack Obama durante le primarie democratiche del 2008.
Un interventismo che ciononostante non diminuì negli anni da segretario di Stato: appena insediata annunciò difatti un cambio di passo, rispetto all’amministrazione precedente, asserendo che ci fossero “numerosi danni da riparare”. Subito dopo – molto coerentemente – inviò nuove truppe in Afghanistan. Ma il suo vero capolavoro geopolitico fu un sostegno totalmente acritico alla cosiddetta Primavera Araba. Si prenda il caso dell’Egitto: nel giro di pochi giorni passò dal sostegno verso Mubarak alla sua condanna, affermando la necessità di un processo democratico in loco.
Un processo democratico che – come sappiamo – portò prima alla deposizione del rais e poi alla vittoria elettorale dei Fratelli Musulmani di Morsi: così si passò da un governo autoritario ma filo-occidentale a un governo integralista, potenzialmente anti-americano ma “democraticamente” eletto. E soltanto il golpe di Al Sisi ha evitato che l’Egitto si trasformasse in un nuovo Iran: quello stesso Al Sisi che – guarda caso – adesso Obama si trova costretto a blandire come baluardo contro il fanatismo islamista.
Situazione simile poi con la Siria di Assad. Dapprima Hillary cercò di forzare il dittatore a riforme liberali che andassero incontro ai manifestanti. Poi ipotizzò un intervento militare, cui tuttavia si oppose il Congresso, perché qualcuno capì che forse quell’intervento avrebbe avuto come unico effetto quello di ingrossare le fila del fondamentalismo jihadista. E difatti, approfittando della debolezza di Assad, da lì a poco nacque l’Isis: uno stato terroristico con tanto di capitale (Raqqa) che ancora oggi Obama non è in grado militarmente di attaccare. Senza infine dimenticare che – come nel caso di Sisi – prima Assad era un dittatore spietato da spodestare, oggi invece è gradito ospite del successore di Hillary a segretario di Stato, John Kerry.
Ma il vero colpo di genio geopolitico della Clinton fu la guerra in Libia. Davanti ad un Obama – sembra – piuttosto riluttante verso una nuova guerra (lui, si sa, preferisce spiare), il sodalizio tra Hillary e Samantha Power lo convinsero alfine ad un intervento militare che depose Gheddafi e che ha prodotto il caos politico che tutti noi oggi conosciamo in terra libica, non mancando – anche qui – di dare una mano ai jihadisti dell’Isis che difatti vi si stanno allegramente espandendo. E poi c’è qualche attivista invasata che afferma che lo Stato Islamico sia stato prodotto dalle guerre di Bush e subito certa stampa parte con l’Osanna, dimenticando che – forse – dietro la nascita del mostro jihadista si annidi invece l’incapacità della signora Clinton. Anche perché, se spodestare Saddam da parte di Bush è stato un errore, deporre Gheddafi è stato da idioti.
La bellicosità di Hillary d’altronde non deve stupire. Ha difatti radici lontane, che affondano chiaramente nell’interventismo umanitario che il marito Bill praticò tanto in Bosnia quanto in Iraq: proprio quell’Iraq che fece bombardare nel 1998, dopo aver pubblicamente dichiarato che con ogni probabilità Saddam Hussein disponesse di armi di distruzione di massa. Un interventismo che Hillary ha dunque chiaramente ereditato dalle prospettive politiche del marito, come aveva fatto, sino a ieri, sulle questioni di politica interna.
Con la differenza che oggi sulle questioni interne – come abbiamo visto – ha abbandonato il centrismo della Terza Via, per abbracciare dei toni più radicali. Il punto è capire se questa svolta possa aver luogo anche sulle tematiche di foreign policy. Ed è qui che risiede il problema: un vero e proprio dilemma. Hillary difatti deve scegliere. Da una parte potrebbe proseguire sulla strada dell’interventismo umanitario, esponendosi però così al rischio di ricordare i suoi disastrosi trascorsi da segretario di Stato e alienandosi inoltre parte cospicua di quella base di sinistra cui oggi si rivolge e che vede la pratica bellica in termini decisamente negativi.
Dall’altra potrebbe intraprendere una foreign policy di maggior cautela, improntata alla distensione (sulla scorta del secondo mandato obamiano): ma anche qui le incognite sarebbero parecchie. In primo luogo a livello generale la distensione propugnata da Obama va stretta a non poche frange dell’elettorato americano (anche democrat), che la interpreta come un appeasement autolesionista. In seconda istanza poi, più nello specifico, questa distensione come è stata condotta? Ha prodotto effettivamente dei risultati di stabilità internazionale (anche solo lontanamente paragonabili all’apertura alla Cina propugnata da Nixon negli anni ’70)? Sembrerebbe di no.
Putin si espande a occidente e si fa beffe delle sanzioni americane, mentre Teheran sottopone da mesi Washington ad un estenuante tira e molla sul nuclear deal, senza poi dimenticare come le reali intenzioni dell’ayatollah Khamenei rimangano inquietantemente ambigue e quindi in definitiva minacciose per gli Stati Uniti.
In questo senso, appare abbastanza chiaro come la politica estera risulti al momento il vero tallone d’Achille di Hillary Clinton, rappresentando di contro forse l’unica chance, di cui l’Elefantino possa disporre per cercare di batterla. Non a caso, d’altronde, il discorso pronunciato da Jeb Bush a Miami, ha trovato nella politica estera il proprio cavallo di battaglia: una politica estera di chiara impronta neocon che ravvisi in una deterrenza aggressiva la propria peculiare ragion d’essere.
La principessa del popolo marcia oggi trionfalmente verso una probabile vittoria. Ma faccia attenzione. La politica estera in America è una questione pericolosa: una pietra d’inciampo che può presentartisi davanti quando meno te l’aspetti. E la mancanza di risolutezza può rivelarsi fatale. Ne sa qualcosa Jimmy Carter.
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