America

USA 2016, Obama attacca la destra radicale

27 Luglio 2015

Sabato scorso, l’ex governatore dell’Arkansas e candidato alla nomination repubblicana, Mike Huckabee, ha duramente criticato l’accordo sul nucleare con l’Iran, siglato dall’amministrazione Obama. Un accordo per lui scellerato, in quanto potenzialmente lesivo per la sicurezza nazionale ma anche – soprattutto – per l’esistenza stessa di Israele. Tanto che, ha chiosato Huckabee, tale intesa sarebbe sostanzialmente paragonabile all’Olocausto.

Parole pesantissime, che hanno scatenato – come prevedibile – una vera e propria bufera mediatica. Parole che hanno immediatamente raggiunto il presidente, Barack Obama, in visita in Etiopia. Appositamente interrogato sulla questione, Obama ha replicato che l’affermazione risulterebbe ridicola, se non fosse triste. Da qui, l’inquilino della Casa Bianca ha preso le mosse per una considerazione più generale sull’attuale Partito Repubblicano: ha difatti affermato che una dichiarazione grave e assurda come quella di Huckabee nasca non casualmente all’interno di una cultura politica sempre più estremista e sensazionalistica, che sarebbe stata dal GOP a lungo tollerata (e solleticata), sino a diventare oggi quasi egemone.

Una considerazione che non poteva ovviamente ignorare la figura di Donald Trump, il candidato repubblicano che – con le sue sparate populistiche e anti-sistema – è dato in testa a quasi tutti i sondaggi interni all’Elefantino: notizia delle ultime ore è per esempio quella del suo sorpasso su Jeb Bush nel New Hampshire (stato tradizionalmente di tendenza moderata e in cui sino a sabato l’ex governatore della Florida era dato al primo posto).

La critica di Obama a Trump ha del resto motivazioni antiche ed è abbastanza evidente come il presidente abbia voluto togliersi qualche sassolino dalla scarpa: accusando colui che nel 2012 – improvvisamente folgorato sulla via del conservatorismo – avviò una dura campagna contro lo stesso Obama, mettendo in discussione la sua nascita sul suolo americano e – conseguentemente – il suo diritto legale a sedere sullo scanno presidenziale.

Il consenso di cui gode oggi Trump tra l’elettorato del GOP – prosegue il presidente – sarebbe allora la logica conseguenza di un radicalismo, alimentatosi nel corso degli anni. In tal senso, Obama ha espressamente citato i casi di Ted Cruz (evangelico ultraconservatore, protagonista in queste ore di una ribellione al Congresso contro l’establishment dell’Elefantino) e di Tom Cotton (il promotore della lettera direttamente inviata ai leader iraniani contro il nuclear deal alcuni mesi fa): due personaggi politici particolarmente radicali, nonché storicamente vicini al Tea Party. Quello stesso Tea Party che ha da sempre trovato nell’opposizione strenua alle politiche obamiane la propria principale ragion d’essere.

Ora, per quanto le critiche di Obama possano essere legate a partigianeria politica e per quanto si dovrebbe forse magari ricordare la vicinanza storica di Trump allo schieramento democratico (soprattutto nel New York), non si può tuttavia essere in disaccordo con queste considerazioni. Che il GOP abbia difatti costantemente solleticato le frange più estremiste (libertarie e religiose) del proprio elettorato, salvo poi perderne il controllo, è un dato di fatto. Un dato di fatto che  contempla tanto la religious right quanto lo stesso Tea Party.

Negli anni ’80, Ronald Reagan conferì ampio spazio alla destra religiosa, servendosene primariamente come strumento ideologico in contrapposizione all’ideologia marxista di un’Unione Sovietica sull’orlo del collasso: un ampio spazio che – non a caso – gli attirò le critiche del suo storico mentore, il libertario Barry Goldwater, e delle stesse frange neoconservatrici (che vedevano nel fanatismo degli evangelici un fattore destabilizzante).

Da allora, la destra religiosa ha consolidato il suo potere, divenendo sempre più centrale soprattutto in sede elettorale: la sconfitta di George H. Bush nel 1992 fu in buona parte dovuta alla necessità di accontentare gli evangelici, alienandosi così le simpatie dell’elettorato moderato. George Walker Bush poi governò per otto anni attraverso complicati equilibrismi tra settarismi di ogni sorta. McCain nel 2008 fu boicottato dalla destra religiosa, perché considerato “liberal” sui temi etici. Stessa sorte toccò infine a Romney, in quanto mormone.

Poi abbiamo il capitolo “Tea Party”. Nato tra il 2007 e il 2008, il movimento libertario si costituì soprattutto in opposizione alle riforme sociali ed economiche di Obama. Constatata la sua vitalità, l’establishment repubblicano cercò di coccolarlo e di istituzionalizzarlo ma con ben scarsi risultati: nel giro di pochi anni si è difatti trasformato in un partito nel partito e da più parti si ventila ormai l’ipotesi di una possibile scissione. Le ribellioni sono infatti all’ordine del giorno: al Congresso i leader repubblicani in queste ore ne sanno qualcosa. E McCain che oggi – giustamente – definisce “pazzoidi” i sostenitori di Trump, si ricordi magari quando nel 2008 scelse Sarah Palin come vice, per ingraziarsi proprio le simpatie del Tea Party.

Le considerazioni di Obama allora sono giuste non tanto come giudizio di valore (certo un presidente democratico in carica non può parlare bene dei repubblicani), quanto semmai come analisi politica. Che almeno la metà degli attuali candidati alla nomination repubblicana non abbia alcuna caratura presidenziale, mi pare un dato difficilmente controvertibile.

E le reazioni di molti di costoro lasciano spazio a pochi dubbi. Non solo Trump tira diritto per la sua strada, proseguendo nel suo populismo radicale. Ma lo stesso Huckabee (che pure in passato ha ricoperto la carica istituzionale di governatore dell’Arkansas) sulla questione dell’Olocausto non ha fatto marcia indietro ma ha ribadito energicamente la propria posizione. Tanto che  oggi l’Anti-Defamation League ha duramente condannato le sue parole.

Un tempo lo specchio fedele della politica americana era “L’amaro sapore del potere”, un film del 1964, diretto da Franklin Schaffner, in cui si raccontano le vicende di una convention del Partito Democratico: una lotta furibonda, uno scannamento spietato e senza esclusione di colpi che tuttavia non trapela mai all’esterno, perché comunque l’onorabilità della politica deve essere salvaguardata davanti ad occhi estranei.

Oggi invece lo specchio della politica americana sembra essere diventato un altro film. Datato 1976, di Ettore Scola, con un titolo a dir poco eloquente: “Brutti, sporchi e cattivi”.

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