America
USA 2016, Marco Rubio ha presentato il suo jobs plan
Il candidato alla nomination repubblicana, Marco Rubio, ha presentato ieri a Chicago il jobs plan che avrebbe intenzione di attuare in caso di vittoria presidenziale. Un programma asciutto, che si articola in una serie di punti precisi. Un programma che si inserisce nel più generale quadro di quel “New American Century”, tanto caro alla sua retorica.
Dopo l’ormai consueto riferimento alle proprie origini cubane, il senatore della Florida ha preso le mosse dallo scenario generale di un’economia globale in rapidissimo mutamento e sostanzialmente caratterizzata da due fenomeni principali e interconnessi: la rivoluzione tecnologica e la globalizzazione. Due cambiamenti epocali a cui l’America non sarebbe stata in grado di fare adeguatamente fronte, essendo rimasta preda di politiche economiche obsolete: e difatti – secondo Rubio – soprattutto negli ultimi quindici anni “Washington has looked to the past”. Una dichiarazione che suona non soltanto come un ovvio attacco alle politiche economiche di Obama ma – andando indietro nel tempo – alla stessa amministrazione di George Walker Bush.
Il centro gravitazionale attorno a cui ruota l’intero programma del senatore è dunque quello dell’innovazione: un’innovazione politica, culturale, tecnica ma – in primo luogo – economica. Un’innovazione che sia in grado di diffondere benessere per tutta la società americana: che permetta la nascita di nuovi ricchi e al contempo tuteli e rafforzi la stessa classe media.
In primo luogo per Rubio appare impellente il problema di un’eccessiva tassazione: non solo – argomenta – le aziende americane che fanno profitti all’estero sono tassate in loco ma – nel momento in cui trasferiscono i guadagni negli States, ecco che lo Zio Sam è pronto a tassarli di nuovo, con l’ovvia conseguenza che sempre meno imprese statunitensi con attività estere tendono a spostare ricchezza in patria. Una situazione a cui Rubio giura di voler porre fine.
A questo si aggiunge poi un ulteriore programma di detassazione per quelle aziende maggiormente avanzate e tecnologiche che si impegnino a creare posti di lavoro sul suolo americano. Un programma di detassazione che si associa ad una serrata critica nei confronti del big government, tacciato di essere un apparato burocratico soffocante e fondamentalmente ostile ad una genuina ripresa economica.
Tesi che in sé stesse non sembrerebbero esprimere grandi novità: detassazione e critica allo statalismo sono difatti argomenti classici del Partito Repubblicano dai tempi di Reagan. Tesi che non parrebbero discostarsi neppure dai programmi (più o meno seri) della stragrande maggioranza degli altri competitor repubblicani.
Eppure, come ci ha abituato ormai da tempo, Rubio è un candidato particolare. Un candidato che non a caso viene giudicato molto spostato a sinistra da buona parte dell’Elefantino. Nonostante – anche nella sua attività senatoriale – faccia costante ricorso difatti ad argomenti più classici – come il taglio delle tasse – sulle questioni di natura sociale non risulta assolutamente in linea con il reaganismo. Quello stesso reaganismo che in più di un’occasione Rubio ha – per quanto velatamente – attaccato, sostenendo a più riprese come i problemi e le sfide (soprattutto economiche) del nostro tempo non possano essere risolte attraverso ricette partorite negli anni ’80. Non dobbiamo d’altronde dimenticare che Rubio è stato per lungo tempo l’allievo (e il papabile delfino) di quel Jeb Bush contro cui oggi corre nella corsa per la nomination repubblicana. Quel Jeb Bush, che – nonostante i suoi reiterati proclami di fedeltà a Milton Friedman – si è sempre smarcato da un eccessivo ultraliberismo.
E difatti Rubio nel suo discorso prosegue asserendo che il “govenrment” non debba “controllare” il settore privato ma semmai “tutelarlo”, prendendo così implicitamente le distanze dalle correnti più radicalmente anti-stataliste del GOP (dai libertarians al Tea Party).
E non a caso, per il senatore della Florida, l’innovazione e la rinascita dell’ “American Dream” non passano soltanto attraverso forti politiche di defiscalizzazione. Un ulteriore elemento da considerare è per lui difatti la riforma delle regole sull’immigrazione, così da favorire l’attrazione dei migliori talenti sul suolo statunitense. Le politiche riformiste in tema di immigrazione rappresentano d’altronde uno dei principali vessilli della linea politica di Rubio: con un particolare interesse verso l’immigrazione ispanica. E, per quanto qui non venga esplicitamente citata, è possibile ipotizzare che il senatore con questa affermazione abbia voluto implicitamente rispondere alle dure dichiarazioni contro gli immigrati messicani del rivale Donald Trump.
Ma l’aspetto “sociale” della politica economica di Rubio traspare anche da un altro punto di vista: la riforma dell’istruzione superiore, una riforma assolutamente necessaria in termini di competitività e innovazione economico-tecnologica. Il punto essenziale per il senatore è quello di garantire una maggiore connessione tra istruzione e mondo del lavoro: un punto nevralgico, oggi ostacolato da due problemi gravosi. Da una parte, la presenza di materie di studio non veramente funzionali alla crescita economica. Dall’altra, gli elevati costi universitari che costringono la stragrande maggioranza degli studenti americani ad indebitarsi pesantemente. In tal senso, Rubio propone una serie di misure decise, finalizzate a garantire una maggiore accessibilità all’istruzione superiore: abbassamento generale dei costi, prestiti agevolati e programmi di apprendistato per facilitare l’entrata nel mondo del lavoro.
Una serie di misure pienamente in linea con il “compassionate conservatism” alla Jeb Bush ma neppure così distanti poi dalla linea sociale del tanto vituperato Obama (soprattutto per quanto riguarda le proposte sui prestiti e l’apprendistato, come ha notato ieri Alan Rappeport sul “New York Times”).
In questo senso, conclude Rubio, il programma proposto dovrà essere in grado di risollevare un’America in crisi, nel nome di un nuovo “American Dream”, intriso di eccezionalismo e messianismo, di tradizione e innovazione. Perché il declino non è ineluttabile né la prosperità qualcosa di impossibile e irrimediabilmente ancorato ad un passato sepolto. Tesi che riecheggiano (neppur tanto velatamente) la critica che Ronald Reagan rivolgeva nel 1980 alla “crisis of confidence” di carteriana memoria.
Il jobs plan di Rubio si pone dunque come un programma di equilibrio tra liberismo e politiche sociali: un programma che mescola elementi differenti. Un programma in cui paradossalmente accenti di matrice reaganiana (detassazione e fiducia nel futuro) si sposano a misure sociali particolarmente vicine a quelle della dinastia Bush (soprattutto per quel che riguarda l’attenzione alle tematiche dell’istruzione e dell’immigrazione).
Questo è dunque il grande dubbio che ad oggi suscita il programma di Marco Rubio. Una vera innovazione, pronta a sparigliare le carte, lasciandosi realmente alle spalle totem ideologici ormai sclerotizzati? O un collage di politiche vecchie e prive di fantasia?
Ai posteri l’ardua sentenza.
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