America

Usa, i giudici salvano l’Obamacare e mettono i repubblicani davanti a una scelta

26 Giugno 2015

Con sei voti a favore contro tre, ieri la Corte Suprema ha confermato per la seconda volta la legittimità costituzionale dell’Obamacare, mettendola di fatto al sicuro da ulteriori tentativi di smantellamento. La sentenza ha determinato un vero e proprio terremoto politico, ricco di interessanti conseguenze, soprattutto se letto alla luce della corsa elettorale per le presidenziali del 2016.

In casa democratica l’atmosfera è ovviamente festosa. La sentenza rappresenta non solo una chiara vittoria di Barack Obama: la riforma sanitaria è notoriamente costituito il suo cavallo di battaglia nel corso del primo mandato e – per quanto annacquata, rispetto al disegno originario – il fatto di essere stata confermata dalla Corte per ben due volte manifesta un rafforzamento della sua credibilità ma anche della sua posizione politica, in un momento di forte debolezza e imbarazzo. Non dimentichiamo infatti che due settimane fa il presidente è stato battuto al Congresso nell’iter legislativo che dovrebbe portare all’emanazione del TPP (Trans-Pacific Partnership), un trattato di libero scambio tra Stati Uniti, Cile, Perù, Canada e Australia.

Un trattato che – in termini di politica interna – rappresenta ormai da mesi il nuovo vessillo dell’amministrazione in carica. Un trattato che sta incontrando tuttavia enormi difficoltà al Congresso, paradossalmente per l’opposizione di ampie frange del Partito Democratico, aizzate dai sindacati, i quali vedono nel provvedimento un rischio per la tutela di milioni di posti di lavoro. È chiaro dunque che – per quanto Obamacare e TPP siano due provvedimenti indubbiamente distinti – la recente vittoria obamiana rafforzi il presidente sotto il profilo dell’immagine: il che potrebbe avere delle conseguenze anche a livello politico e nei rapporti parlamentari, aumentando notevolmente il suo potere negoziale.

Senza poi contare che non pochi senatori dem, prima avversi al trattato, sembrerebbe stiano cambiando idea e che su tale questione il fronte repubblicano appare profondamente spaccato e senza una linea comune. Laddove, di contro, questa sentenza offre la possibilità di un chiaro ricompattamento ideologico all’interno di casa democrat, sancendo tra l’altro – dopo i dissidi di queste settimane –  un nuovo riavvicinamento tra lo stesso Obama e l’attuale leader della minoranza al Senato, Nancy Pelosi.

Ma anche la front runner democratica, Hillary Clinton, se la ride gioiosamente. Sebbene avversaria della proposta sanitaria obamiana in occasione delle primarie democrat del 2008 (quando ancora rappresentava l’ala moderata dell’Asinello), la sua recente e vagamente opportunistica virata a sinistra rende evidente come la signora sia pronta ad appropriarsi di questa vittoria, come carburante ideologico per la propria campagna elettorale: un po’ come sta facendo con la questione razziale, a seguito della strage di Charleston.  E non vale neanche la pena di scandalizzarsi troppo: non sarebbe difatti la prima manifestazione del trasformismo di Hillary: si pensi alla guerra in Iraq, alle nozze omosessuali o al dibattito sul controllo delle armi.

Il Partito Repubblicano, dal canto suo, subisce invece una pesante sconfitta, palesando una debolezza politica assolutamente perniciosa (se non addirittura letale), soprattutto se considerata alla luce di una campagna elettorale imminente che si annuncia già da oggi litigiosa e divisiva.

Innanzitutto c’è il dato tecnico. Il GOP  ha tentato per ben due volte di sollevare il problema di costituzionalità davanti alla Corte Suprema, impostando sostanzialmente i ricorsi sul fatto che la riforma obamiana avrebbe rappresentato una violazione del governo federale rispetto all’autonomia locale e individuale. E l’Elefantino non solo si è visto tutte e due le volte bocciati i ricorsi ma ha anche dovuto subire lo smacco di vedersi il voto contrario del giudice John Roberts, l’attuale capo della Corte Suprema, nominato da George Walker Bush nel 2005, come rappresentante della compagine conservatrice.

Uno scacco cocente, tanto che da ieri imperversa un furibondo dibattito interno al GOP, farcito di critiche e accuse contro il giudice: da chi lo taccia di essere un traditore, a chi lo definisce un liberal mascherato, mentre qualcuno (come il libertarian Wayne Root) sostiene sia addirittura sotto ricatto e per questo costretto a sentenze favorevoli nei confronti dell’Asinello.

Ma ben più drammatico si presenta il dato politico. Quello di un partito che – soprattutto in alcune sue frange radicali – ha fatto dell’opposizione all’Obamacare l’ossessivo vessillo ideologico delle proprie (spesso virulente) campagne.  E non c’è bisogno di tornare con la memoria al 2009, alle scenografiche proteste del Tea Party e alla retorica infiammata di Sarah Palin (la quale si paragonava a “mamma orsa” che cura i suoi cuccioli senza aiuti e invadenze federali). Non pochi degli stessi attuali candidati alla nomination repubblicana hanno difatti scelto la lotta alla riforma sanitaria come proprio cavallo di battaglia. Si pensi per esempio all’ex neurochirurgo Ben Carson, che – tra mille polemiche – la paragonò alla schiavitù  o all’ex governatore del Texas, Rick Perry, che la tacciò di essere un provvedimento “socialista”. Per non parlare poi delle critiche durissime mosse da esponenti ultraconservatori, come Rick Santorum e Mike Huckabee, che la bollarono d’infamia non solo in termini politico-costituzionali ma anche morali (a causa delle sue decise venature pro-choice).

Sennonché la cosa più sconcertante è che – nonostante questi numerosissimi tentativi di picconamento (peraltro falliti) – il GOP non sia stato in questi anni capace di elaborare una proposta di politica sanitaria alternativa. Tant’è che – come hanno recentemente riportato sia il New York Times che Politico – alcuni esponenti repubblicani storicamente anti-Obamacare (come il governatore del Wisconsin, candidato alla presidenza, Scott Walker) si sono trovati nel paradosso di  dover sperare in una sentenza favorevole alla riforma, perché –  in caso contrario –  milioni di persone avrebbero irrimediabilmente perso copertura sanitaria: un’ipotesi ovviamente deleteria in termini di consenso elettorale.

Ora, le reazioni a caldo nelle ore immediatamente successive alla decisione della Corte sembrano aver rinvigorito l’ala oltranzista del GOP: soprattutto quei conservatori radicali che si riconoscono nella figura del senatore texano, Ted Cruz, vicino tanto al Tea Party quanto (soprattutto) alla religious right. Un Ted Cruz che non ha perso tempo a criticare duramente la sentenza e i suoi rivali di partito, giudicati troppo arrendevoli e spostati a sinistra, in particolare Jeb Bush e Marco Rubio. Una retorica infiammata che rischia nuovamente una monopolizzazione del GOP da parte di una destra radicale, invisa all’elettorato moderato: uno spostamento su posizioni ultraconservatrici che avrebbero come unico effetto quello di una sempre maggiore irrilevanza e – conseguentemente – di una nuova sconfitta alla General election.

Ed è per questo che proprio oggi, ancora più che in passato, il GOP si trova davanti a un bivio. Che piaccia o no è difatti dai tempi del tracollo di Romney che l’elettorato statunitense ha stabilmente optato per una virata a sinistra, rifiutando sostanzialmente i programmi radicalmente neoliberisti dell’età reaganiana. Al di là del dato filosofico e ideologico, la questione è – alla fin fine – pragmaticamente politica. Ha ancora senso, all’interno di un mutato quadro storico-economico, continuare a proporre ricette programmatiche partorite negli anni ’80? Ha senso continuare a solleticare la parte più oltranzista dell’elettorato, nella speranza di raccogliere una manciata risicata di voti per mettersi infine populisticamente alla testa di minoranze fanatiche, senza uno straccio di proposta credibile?

O il GOP comprende la necessità di un proprio riposizionamento in termini moderati (soprattutto sulle questione socio-economiche) o rimarrà condannato all’inutilità di un’opposizione sterile. In tal senso, programmi meno radicali come quelli di Jeb Bush e Marco Rubio, ispirati al cosiddetto “compassionate conservatism”, sono forse l’unica speranza di salvezza cui i repubblicani possono affidarsi per cercare di riconquistare la Casa Bianca nel 2016. Questo non significherebbe per il GOP doversi vendere a ideologie estranee e “nemiche” ma riscoprire – considerando lo spirito dei tempi – quella vocazione alle questioni sociali che tanta parte ebbe in amministrazioni repubblicane come quelle di Eisenhower, Nixon e dello stesso Bush jr. La vittoria dell’Obamacare mette sul tavolo una questione scottante. Il tempo è scaduto e l’Elefantino deve scegliere. Una cura energica o il suicidio assistito.

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