America

USA 2016, l’incognita di Donald Trump

7 Agosto 2015

Concluso il primo dibattito televisivo tra i candidati alla nomination repubblicana, tenutosi ieri a Cleveland (in Ohio), è forse il caso di fermarsi a ragionare sulle implicazioni politiche che esso potrebbe avere nell’ambito della corsa elettorale. Senza soffermarsi infatti sulla consueta ricerca di vincitori e sconfitti, risulta magari più proficuo analizzare la posizione di colui che – a detta di tutti – si è rivelato la vera star della serata: il miliardario Donald Trump.

Da settimane in ascesa nei sondaggi interni all’Elefantino, è riuscito a diventare front runner del partito a livello nazionale, piazzandosi al primo posto anche in uno stato tendenzialmente moderato come il New Hampshire. Contrariamente alle aspettative di molti analisti (“New York Times” in testa), i suoi costanti attacchi nei confronti dell’establishment repubblicano (in particolare nella sua polemica contro John McCain) non hanno fatto che rafforzarlo, conferendogli cospicui consensi. Trump è dunque cresciuto a dismisura, solleticando la pancia della destra radicale e cannibalizzandone i candidati: candidati ultraconservatori che non a caso sono sempre più in difficoltà (si pensi soltanto ai modesti numeri di Rick Perry, Bobby Jindal e Rick Santorum).

Tutto questo ha permesso al magnate in toupet di entrare a testa alta nell’arena di Cleveland, forte di una poderosa (ancorché ufficiosa) investitura popolare, che gli ha consentito di misurarsi politicamente da pari a pari con esponenti del calibro di Jeb Bush e Scott Walker. Un intervento degno delle aspettative, almeno in termini di spettacolo: Trump ha saputo gestire il palcoscenico con maestria, schivare con sarcasmo gli attacchi degli avversari (Rand Paul in primis), ribaltare i trabocchetti orditi dai giornalisti a proprio favore. Ha saputo abilmente mescolare – come sempre d’altronde – ironia, efficacia oratoria e becerume populista: un mix di ingredienti esplosivo che hanno lasciato evidentemente il segno, in un’arena divisa e litigiosa.

Nessun dubbio quindi sul valore televisivo della performance di Trump. Né ci si sarebbe potuti attendere qualcosa di diverso. Il punto è tuttavia ora capire – senza altezzosi infingimenti – se questo suo ultimo successo mediatico riuscirà a trasformarsi in consenso elettorale. Se, in altre parole, Cleveland possa rappresentare un ulteriore trampolino di lancio per l’istrionico miliardario o – al contrario – l’inizio della sua fine. La situazione al momento non appare particolarmente chiara.

Da una parte, si potrebbe ritenere che il dibattito non possa che beneficiarlo in termini di consenso: non soltanto ha ribadito punto per punto senza ipocrisia il programma radicale da sempre sostenuto (soprattutto in materia di immigrazione clandestina). Ma ha anche utilizzato un linguaggio colorito e volgare, attaccando direttamente lo snobismo tirannico del politically correct: un atteggiamento, questo, storicamente apprezzato dalla base conservatrice (e difatti l’altro candidato ultraconservatore, Ted Cruz, pur non pervenendo agli eccessi retorici di Trump, ha cercato di imitarlo).

Si potrebbe ciononostante obiettare che il magnate non sia risultato eccessivamente credibile, avendo glissato sulle domande dei giornalisti, che puntualmente hanno cercato di chiedere concretamente conto delle sue proposte programmatiche. Sennonché, è da rilevare come un simile fatto non interessi poi molto a quella base radicale cui Trump si rivolge: una base tendenzialmente massimalista che cerca più un rappresentante anti-establishment che un politico serio, in grado di realizzare le proprie promesse.

Eppure, per quanto a prima vista sembrerebbe che il dibattito di ieri rappresenti un indubbio successo sul fronte elettorale, le cose potrebbero non rivelarsi così semplici. In primo luogo, poiché Trump è stato l’unico tra i dieci candidati presenti a rifiutare di impegnarsi a non correre da indipendente, in caso di non ottenimento della nomination. Una dichiarazione che ha suscitato una forte disapprovazione da parte del pubblico in platea e soprattutto una scintillante polemica con il libertarian Rand Paul. Trump ha quindi ufficialmente confermato la sua intenzione di fondare un terzo partito e questo dovrebbe tendenzialmente avere delle ripercussioni negative in termini di consenso anche da parte della destra conservatrice (quantomeno nelle sue componenti meno radicali).

Ulteriore problema è stato poi il suo linguaggio. Se da una parte lo ha indubbiamente favorito, soprattutto nel confronto con i candidati più compassati e istituzionali (come Jeb Bush), dall’altra potrebbe essersi rivelato un’arma a doppio taglio. E ci riferiamo in particolar modo alle sue battute pesanti sulle donne, ricordategli a inizio dibattito e da lui non smentite ma (anzi) convintamente ribadite. Affermazioni elettoralmente assai pericolose, se è vero – come da tempo sostengono molti analisti – che il voto femminile stia diventando sempre più decisivo, soprattutto per la vittoria alla general election.

Si pensi soltanto che Obama nel 2012 è riuscito a battere Romney proprio grazie al voto delle donne. Un voto che è allora sempre più corteggiato, a destra come a sinistra. Hillary Clinton sta cercando da mesi di accattivarselo, attraverso la riproposizione (e la radicalizzazione) dei suoi storici vessilli femministi: un tentativo che tuttavia – secondo recenti sondaggi – non starebbe riuscendo: in quanto l’ex first lady starebbe perdendo progressivamente l’appoggio delle donne bianche (pare – soprattutto – a causa dell’emailgate). Un dato cui – dalle parti dello staff clintoniano – si guarda con profonda preoccupazione.

In tal senso, la battuta di Trump potrebbe rivelarsi un boomerang, tanto più se si considera la bufera in cui è finito Bush qualche giorno fa, per aver detto che alcune associazioni finalizzate alla salute femminile (quelle di stampo abortista) non dovrebbero più essere finanziate da denaro pubblico. Un boomerang quindi che Trump non ha saputo (o forse voluto) considerare. Perché? Una svista? Oppure una precisa strategia per rimarcare la propria originalità?

Che si tratti di una svista è difficile crederlo. Nel caso invece si trattasse di una strategia, non è chiaro quale beneficio il magnare possa realisticamente trarre dall’alienarsi una quota elettorale (quella femminile) da tutti giudicata tanto importante.

Certo è che ancora una volta la candidatura di Trump appare strana. Un notorio democratico che improvvisamente resta folgorato sulla via dell’Elefantino. Un feroce accusatore di Hillary Clinton, che tuttavia non disdegna le telefonate amichevoli del marito Bill, a poche ore dal dibattito televisivo. Un celebre abortista che si trasforma in un vigoroso pro life. Uno che dice di ambire alla presidenza degli Stati Uniti e che al contempo continua imperterrito a spingere sul pedale del radicalismo, ben sapendo che la Casa Bianca si conquista soprattutto rivolgendosi al voto moderato (e femminile).

Come che sia, senza scadere in dietrologie o sterili complottismi, una cosa è certa. La performance di Cleveland segna uno spartiacque: non solo per la corsa di Trump ma per il GOP tutto. Nei prossimi giorni difatti sapremo la verità. Se il fenomeno imploderà, ripiegandosi su sé stesso e permettendo all’Elefantino di tornare ad una competizione tradizionale. Oppure (e non è affatto da escludere), se continuerà a crescere, determinando una fase di svolta nella storia del Partito Repubblicano, nel nome di una mutazione genetica dal futuro profondamente incerto.

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