America
USA 2016, la precarietà dell’accordo con l’Iran
Dopo trattative lunghe e snervanti, l’accordo con l’Iran è stato alfine siglato. Nonostante l’atteggiamento ambiguo tenuto da Teheran in questi mesi (dettato dalla più o meno sincera divergenza tra il premier Rohani e l’ayatollah Khamenei) le trattative viennesi sono giunte oggi a conclusione. Trattative che rappresentano un compromesso in primo luogo con lo Zio Sam, da sempre guardingo e sospettoso verso lo “stato canaglia” khomeinista. In sostanza, Teheran ha accettato un drastica riduzione del suo programma nucleare, altresì acconsentendo ad ispezioni da parte dell’ONU (punto – quest’ultimo – particolarmente controverso, su cui i negoziati si erano incagliati nelle scorse settimane). In cambio, la Casa Bianca si impegna ad abolire di fatto le sanzioni, comminate nel 2006 da George Walker Bush, in risposta alla retorica bellicista dell’allora premier Mahmud Ahmadinejad.
Una svolta senza dubbio storica che suscita comunque alcune perplessità. Se Obama ha difatti sempre difeso le trattative, sostenendo che un’apertura all’Iran garantisca maggiore stabilità in Medio Oriente (nonché la possibilità velata di allargare la stessa influenza americana in loco), i suoi avversari – soprattutto tra i repubblicani – hanno costantemente ribattuto che questi accordi rappresentano un pericolo, tanto per Israele quanto per gli States.
Come che sia, con l’accordo di oggi, il dibattito ideologico sulla questione può già considerarsi storia passata. Il dato interessante è semmai ora di natura più pragmaticamente politica. Posto difatti che – almeno nel breve termine – il nuclear deal iraniano rappresenti una vittoria della foreign policy obamiana, c’è da capire se nel lungo termine un simile accordo possa rivelarsi efficace. In altre parole, la domanda da porsi a questo punto è: un simile accordo ha effettiva possibilità di durare? A ben vedere, le incognite sono tante.
In primo luogo, un dato banale ma non indifferente. Obama è allo scadere del suo ultimo mandato. Un dato non irrilevante se si pensa al fatto che sia stato proprio lui il maggior promotore di questa linea distensiva con l’Iran. Dinanzi a ciò, le insidie imminenti dei repubblicani passano in secondo piano. E’ vero che difatti il Congresso debba ratificare l’accordo e che i repubblicani abbiano al momento la maggioranza. Ma in caso di (probabile) sgambetto, Obama può comunque ricorrere al veto presidenziale e aggirare così l’ostacolo. No, il vero problema risiede nel ormai prossimo (e inevitabile) avvicendamento alla Casa Bianca: siamo sicuri che il successore di Obama difatti sarà propenso a tenere in piedi questa intesa con Teheran?
In caso di vittoria repubblicana, le possibilità sarebbero davvero esigue. Quasi tutti gli attuali, numerosi, candidati del GOP hanno mantenuto infatti delle posizioni piuttosto dure in politica estera, proprio per rimarcare il più possibile la propria distanza dal presidente. Jeb Bush ha recentemente affermato la propria contrarietà all’accordo, tacciando l’Iran di essere uno stato inaffidabile, anti-americano e sostanzialmente terrorista: un pericolo per la stabilità mediorientale e conseguentemente per l’esistenza stessa di Israele. Poche ore fa su Twitter ha inoltre accusato il presidente di portare avanti un’inaccettabile politica estera di appeasement.
Su questa stessa linea si muovono poi diversi degli altri candidati, da Marco Rubio al falco Lindsay Graham: tutti contrari ad un accordo con l’Iran. Rubio su Twitter ha addirittura affermato che Obama avrebbe ceduto ad un regime le cui mani sarebbero “grondanti di sangue americano”. Laddove Rick Santorum e Scott Walker già promettono battaglia per affondare l’accordo. Senza poi dimenticare che – con ogni probabilità – i repubblicani nelle prossime ore rimarcheranno il fatto che – dietro il raggiungimento dell’accordo – abbiano avuto luogo le pressioni di Russia e Cina: altre due nazioni non particolarmente gradite oggi agli esponenti di Casa GOP (Bush ha recentemente attaccato l’espansionismo di Vladimir Putin, mentre Donald Trump vorrebbe strangolare Pechino a suon di dazi e protezionismo).
Uniche eccezioni nell’Elefantino sono quelle di Rand Paul e di Chris Christie, i quali hanno sempre mantenuto un atteggiamento piuttosto ambiguo sul nuclear deal. Sennonché, è ben difficile che uno dei due possa effettivamente diventare presidente. Le speranze che ha Paul di vincere – proprio in quanto candidato libertarian – sono praticamente vicine allo zero. Christie, dal canto suo, qualche chance in più la avrebbe pure, ma gli scandali passati e la difficoltà a raccogliere fondi rappresentano ostacoli che potrebbero rivelarsi insormontabili. In tal senso, a meno di sorprese, in caso di vittoria repubblicana è quasi certo che nello Studio Ovale finirà un falco anti-iraniano. Senza poi dimenticare la storica vicinanza del GOP allo stato di Israele, che porterebbe senza dubbio all’esclusione di ogni distensione verso Teheran.
E d’altronde, la lettera che il senatore repubblicano, Tom Cotton, ha spedito alcuni mesi fa alle massime autorità iraniane, lo aveva preventivato: se l’Elefantino tornerà alla Casa Bianca, l’accordo obamiano con l’Iran diverrà cartastraccia. Che quella lettera fosse una trovata pubblicitaria di dubbio gusto, è chiaro. Ma che contenesse comunque un fondo di verità, anche questo è fuori discussione.
E se il prossimo presidente fosse invece un democratico? Vale a dire: e se il prossimo presidente fosse Hillary Clinton? Come nota Michael Crowley oggi su Politico, non è assolutamente chiaro quale potrebbe essere la sua posizione sull’Iran, una volta alla Casa Bianca.
Non dobbiamo infatti dimenticare che l’Iran fu argomento di aspro dibattito nel corso delle primarie democratiche del 2008: già allora Obama era su posizioni fortemente aperturiste, laddove la Clinton – al contrario – considerava Teheran come un nemico e per questo – oltre che per il suo passato appoggio alla guerra irachena – si sentì paragonare dal rivale a George Walker Bush (anche perché, da senatrice del New York, aveva votato a favore delle sanzioni, imposte da quest’ultimo).
Diventata Segretario di Stato, la Clinton ha poi cambiato posizione, appoggiando il presidente nel suo piano di distensione e avviando lei stessa – seppur tra mille cautele – i primi incontri negoziali segreti intorno al 2012. Tuttavia – nonostante questo impegno in sede amministrativa – lasciato l’incarico, Hillary ha generalmente evitato di parlare dell’argomento. Anzi, le sue dichiarazioni sull’Iran si sono fatte sempre più sparute. Qualche settimana fa ha sostenuto – è vero – di appoggiare i negoziati, condotti da Kerry, ma si è trattato evidentemente di un’asserzione estemporanea e priva di grande consistenza.
Tanto più se raffrontata ad un’altra sua recente dichiarazione. A inizio luglio, durante un incontro con i finanziatori ebrei, Hillary ha solennemente annunciato che da presidente farà per Israele “molto più di quanto effettivamente compiuto dall’amministrazione Obama”. Una dichiarazione forte, tanto più se letta alla luce delle trattative di un accordo fortemente osteggiato dall’attuale premier israeliano, Benjamin Netanyahu. L’appoggio di Israele è difatti cruciale non soltanto per i candidati del GOP. E ampie frange interne allo stesso Partito Democratico non hanno mai gradito i frequenti strappi attuati da Obama verso Tel Aviv. Ampie frange appartenenti all’ala più moderata: quella stessa ala per cui Hillary ha storicamente rappresentato il principale punto di riferimento. Una Hillary che – tuttavia – da alcuni mesi ha optato per una decisa virata a sinistra, nella speranza di accattivarsi le simpatie di elettori che potrebbero essere attratti dalla figura di O’Malley o – più realisticamente – di Bernie Sanders.
In tal senso, è difficile credere che la svolta a sinistra della Clinton possa rivelarsi qualcosa di veramente sincero, visto che – comunque – il suo supporto principale resta l’universo moderato, non estraneo a Wall Street e gravitante attorno all’orbita israeliana. E la stessa reticenza a parlar chiaro sul nuclear deal (soprattutto in queste settimane febbrili), la dice lunga sul fatto che – nella migliore delle ipotesi – Hillary non abbia ancora le idee ben chiare a riguardo della questione.
L’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, saluta oggi l’accordo con l’Iran come una “giornata storica”. Indubbiamente. Purché non si riveli come il referendum greco. Lettera morta.
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