America
USA 2016, la calma del predatore: strategia comunicativa di Jeb Bush
Stati Uniti. Il Partito Repubblicano è in subbuglio. Poche ore fa, il governatore dell’Ohio, John Kasich, ha ufficializzato la propria discesa in campo per le primarie del 2016, diventando così il diciassettesimo candidato alla nomination. Una situazione sconcertante. Il tutto, mentre il miliardario Donald Trump continua a mietere consensi, sparigliando le carte in seno a un GOP sempre più diviso e litigioso. Non solo difatti ascende costantemente nei gradimenti ma le sue recenti dichiarazioni contro McCain sembra abbiano addirittura rafforzato la sua posizione: diversi sondaggi lo danno primo a livello nazionale (tant’è che Hillary Clinton si rivolge a lui definendolo “Republican front runner”), laddove in Iowa è attualmente piazzato secondo, dietro al governatore del Wisconsin, Scott Walker.
Ora, in questa situazione tumultuosa e strampalata, è forse lecito porsi una domanda: ma che fine ha fatto Jeb Bush? Quel Jeb Bush che dovrebbe essere il naturale front runner dell’Elefantino, tanto per ragioni storiche quanto economiche (viste le cospicue donazioni che è riuscito a raccogliere sino ad oggi)? Quel Jeb Bush che da giorni la stampa ha nettamente lasciato in secondo piano? Possibile che si tratti di un candidato già bruciato: schiacciato nello scontro tra conservatorismi radicali e contrapposti? Le cose non stanno esattamente così.
Innanzitutto, a livello generale, si può ravvisare un problema di fondo: come alcuni analisti avevano paventato, Trump sta catalizzando su di sé l’attenzione dei media, rendendo il dibattito politico interno al GOP sempre più difficile e fornendo così un assist consistente a Hillary Clinton. Un problema che quindi attanaglia tutti i candidati repubblicani e che al momento sta letteralmente monopolizzando l’attenzione dell’opinione pubblica.
Date queste premesse, Bush non è il solo candidato che fa fatica a mettersi in luce. Già difatti i contender più conservatori (da Cruz a Santorum) soffrono della concorrenza di Trump: figuriamoci allora un moderato come Jeb, che è – non a caso – tra i bersagli preferiti dell’eccentrico miliardario, il quale non perde occasione per tacciarlo di centrismo.
Sennonché, siamo ancora all’inizio dei giochi e Bush promette di dare battaglia. E non potrebbe essere altrimenti. Innanzitutto la raccolta-fondi dell’ex governatore della Florida prosegue a tappe forzate. Proprio oggi, il Wall Street Journal ravvisa come la stragrande maggioranza dei big donors, che supportarono il fratello George Walker, oggi appoggino finanziariamente Jeb.
Inoltre, quest’ultimo ha da giorni avviato una efficace campagna sui social network, nel tentativo di infrangere il predominio che la Clinton ha attualmente in rete: non solo Bush è assiduamente presente su Twitter e Facebook, postando numerose infografiche, mirate a rendere chiare e comprensibili le proprie proposte programmatiche (soprattutto sui temi economici e del lavoro). Ma è anche da segnalare come Jeb sia stato il primo candidato a sbarcare su Linkedin e come tutto questo si connetta alla sua posizione di forte supporto nei confronti di quella gig economy, da lui considerata come potenziale molla propulsiva per la ripresa economica.
Una ripresa economica su cui Bush batte ormai da settimane e che dovrebbe per lui primariamente passare attraverso un alleggerimento deciso della spesa pubblica: un alleggerimento che lui, da governatore, sostiene di aver energicamente attuato. Proprio ieri ha d’altronde ironicamente ricordato su Facebook di essere stato soprannominato “Veto Corleone”, per la sua propensione a porre il veto su ogni proposta ingiustificata di aumento della spesa pubblica.
Una strategia articolata, quindi. Che vede nei social un punto sicuramente nevralgico ma non esclusivo. La tattica comunicativa di Jeb passa difatti anche attraverso l’oratoria. Fonti attendibili riportano che si sia da settimane sottoposto ad ore di allenamento per i dibattiti televisivi: un allenamento intenso, evidentemente finalizzato non soltanto a presentarsi come candidato veramente presidenziale ma anche – più nell’immediato – ad arginare l’efficacissima abilità comunicativa di Donald Trump: il suo attuale nemico numero uno. Tra l’altro, al di là delle simulazioni e degli estenuanti allenamenti con i suoi spin doctors (sembra, particolarmente giovani e agguerriti), Bush non si risparmia frequenti spostamenti e discorsi pubblici. Discorsi pubblici in cui ha già attaccato a più riprese Hillary Clinton e – soprattutto – alcuni dei rivali repubblicani.
Venerdì scorso, durante un evento elettorale in Nevada, l’ex governatore della Florida ha direttamente criticato Scott Walker, tacciandolo di inesperienza e sostanziale faciloneria, nelle sue posizioni di politica estera. Walker aveva difatti dichiarato di essere intenzionato – da presidente – a cancellare subito l’accordo recentemente siglato da Obama con l’Iran. Bush – che pure di quell’accordo è sempre stato oppositore – ha replicato che una simile posizione dimostra ingenuità: che non si può promettere un simile atto così alla leggera. Che, prima di procedere verso una simile direzione, è necessario avere una strategia geopolitica chiara, tenere in considerazione gli alleati, nominare un segretario di Stato e un responsabile per la Difesa. Una posizione indubbiamente molto presidenziale (che potrebbe però attirargli le critiche delle ali più oltranziste).
Ieri invece , durante un incontro elettorale in South Carolina, ha sostanzialmente deriso i candidati repubblicani inchiodati a percentuali bassissime di gradimento: difendendo la scelta in virtù di cui ad essere invitati al primo dibattito presidenziale debbano essere soltanto i dieci con maggiore consenso. Altrimenti – ha chiosato l’ex governatore – con diciassette competitor il dibattito costringerebbe ciascun partecipante a parlare soltanto per pochi minuti. E così, dopo una piccola stoccata alla new entry John Kasich, Jeb ha attaccato frontalmente Donald Trump, asserendo che i suoi discorsi sono divisivi e conseguentemente lesivi per la compattezza del GOP: un attacco in cui ha abilmente alternato toni gravi ed ironici. Un attacco evidentemente mirato a demolire la credibilità del proprio rivale.
Una strategia comunicativa che d’altronde i Bush conoscono bene. Proprio ieri, Larry J. Sabato ha pubblicato un interessante articolo su Politico, che ripercorre storicamente la metodologia comunicativa dei primi due Bush in periodo elettorale. Una metodologia, essenzialmente fondata su due pilastri: presentare sé stessi come candidati calmi, posati, credibili, gentili; e annientare i propri avversari con ogni mezzo (anche la calunnia, se necessario).
Nel corso delle primarie del 2000, l’allora candidato John McCain venne difatti sottoposto ad una durissima campagna di denigrazione: una campagna tutta mirata a presentarlo come un candidato di sinistra, instillando anche dei dubbi sulla sua vita privata. Una campagna di discutibile moralità che tuttavia si rivelò pragmaticamente un successo. Senza poi contare i frequenti colpi bassi assestati da Bush padre contro Michael Dukakis durante le presidenziali del 1988: immorali, forse. Ma geniali.
Una strategia dunque crudamente machiavellica, che – nota Sabato – i Bush storicamente utilizzano contro i rivali pericolosi, lasciando che i pesci piccoli si scannino tra loro. Una strategia che Jeb – c’è da giurarci – è pronto a rispolverare. Che anzi sembra aver già rispolverato, avendo iniziato ad attaccare i candidati più forti per la nomination.
A dispetto dunque di un apparente secondo piano, di un’immagine paciosa e sorridente, il rampollo di Casa Bush non sembra intenzionato ad indietreggiare. E’ vero che in questo momento si assiste ad un exploit da parte di Trump. Ma è un exploit comunque molto (troppo) precoce e bisognerà vedere se riuscirà a reggere per più di un anno. Jeb non è nato ieri. Ha vinto due elezioni governatoriali in Florida ed è esponente di una dinastia antica: abituata alla manipolazione del potere, alle sue logiche, alla sua adorazione e al suo inebriante profumo. L’aureo fine, cui tutti gli sforzi non possono che essere diretti.
Perché spesso la tattica dei predatori è proprio questa. Fingersi inoffensivi, nascondersi nell’ombra, per poi artigliare e squartare la vittima. Quando meno se l’aspetta.
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