America
USA 2016, John McCain contro Donald Trump sull’immigrazione
Clima incandescente dalle parti del GOP. I numerosi candidati si azzannano con spietata durezza, ciascuno nella speranza di migliorare le proprie performance nei sondaggi. Un dibattito aspro, senza esclusione di colpi, che sta spostando il baricentro politico dell’Elefantino sempre più a destra. Un rischio – questo – che diversi esponenti del partito vogliono cercare di evitare, nella (giusta) convinzione che estremismi e settarismi non portino elettoralmente da nessuna parte.
In tal senso, proprio ieri è tornata energicamente a farsi sentire la voce del senatore John McCain, il quale è intervenuto in modo deciso nel dibattito repubblicano, attraverso un’intervista rilasciata al “New Yorker”. Un’intervista concisa, risoluta e mirata. Con un bersaglio ben preciso: quel Donald Trump che – candidato alle primarie repubblicane del 2016 – la scorsa settimana ha tenuto a Phoenix un durissimo discorso contro l’immigrazione clandestina (e in particolar modo messicana). Un evento elettorale, cui McCain (senatore dell’Arizona) ha rifiutato di prendere parte, per questo attirandosi le aspre critiche di Trump, che lo ha tacciato di essere soltanto un membro dell’establishment, lontano dal popolo e dai concreti problemi della gente.
McCain ha dunque replicato con fermezza, concentrandosi primariamente sulla questione dell’immigrazione. Da sempre noto per le sue posizioni aperturiste sul tema, il senatore dell’Arizona ha accusato Trump di populismo: un populismo sostanzialmente colpevole di aver “acceso” le ali più estremiste della base elettorale conservatrice. Non a caso, John, da candidato presidenziale nel 2008, aveva presentato un progetto di riforma sull’immigrazione particolarmente avanzato, finalizzato alla regolamentazione di milioni di clandestini.
Una posizione – questa – che oggi McCain rilancia con forza, citando esplicitamente l’attuale candidato alle primarie repubblicane, l’amico Lindsey Graham, da sempre suo alleato su questa battaglia. E – sempre riferendosi a Graham – il senatore nota come l’approccio demagogicamente aggressivo di Trump rischi evidentemente di trasformarsi in un pericoloso boomerang elettorale: alienando, cioè, all’Elefantino ampie quote elettorali, gravitanti attorno al sempre più importante voto ispanico. In nome di un conservatorismo settario, in altre parole, il rischio – ravvisa McCain – è quello di trasformare il GOP in una riserva indiana di duri e puri, assolutamente irrilevante in termini di general election.
Senza poi contare – prosegue il senatore, evidentemente togliendosi qualche sassolino dalla scarpa – che il tanto sbandierato conservatorismo di Trump si rivelerebbe alla fine soltanto un ben misero specchietto per le allodole. Proprio lui difatti – che si definisce “very conservative” – prima del 2012 ha cospicuamente finanziato politici democratici nello stato del New York. Proprio lui che oggi critica, da posizioni di estrema destra, i candidati più moderati all’interno dell’Elefantino, ha in passato effettuato ricche donazioni alle campagne di Hillary Clinton. Quella stessa Hillary con cui ha d’altronde sempre intrattenuto rapporti di amicizia.
Una affondo pesante (quantunque documentato), evidentemente mirato a mostrare Trump come un populista contraddittorio. Un populista tuttavia pericoloso – ammette McCain – perché con la sua retorica efficace (sebbene inconsistente sul piano dei contenuti) sta raccogliendo notevoli consensi ( i sondaggi lo danno ad oggi difatti al secondo posto, dietro il front runner Jeb Bush).
Ma l’intervista al “New Yorker” vuole forse essere qualcosa di più di una semplice critica a Trump. Prendendo difatti spunto dalle sparate del miliardario e dagli urgenti problemi sull’immigrazione, McCain sembra voler affrontare la questione più generale di un estremismo crescente all’interno del Partito Repubblicano. Un estremismo che rischia di portare l’Elefantino alla deriva, condannandolo ad una sempre maggiore irrilevanza. Un problema – questo – che il senatore conosce bene.
In occasione delle primarie repubblicane del 2008, incontrò difatti parecchie difficoltà ad imporsi, vedendosi costantemente osteggiato dalle correnti più conservatrici, che lo vedevano come un candidato “di sinistra” (destino che lo accomunò allora ad un altro candidato, l’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani). Una strenua opposizione, che lo obbligò a scegliersi infine come vicepresidente la paladina del Tea Party, Sarah Palin. Mossa, che non sortì comunque gli effetti sperati: in quanto, alla general election, la religious right (che considerava McCain troppo liberal sui temi etici) rifiutò il suo appoggio e contribuì in maniera determinante alla vittoria di Barack Obama.
Il senatore dell’Arizona sa bene dunque quali problemi l’estremismo di destra (sia religioso che libertario) possa produrre all’interno del GOP. Trump, in fin dei conti, è soltanto una parte (per quanto corposa) di un malessere più generale e strutturale che attanaglia ormai da anni il partito, impedendogli sistematicamente di vincere alla general election: e le primarie repubblicane del 2012 hanno d’altronde evidenziato la medesima situazione: Romney fu sovente criticato ora perché centrista ora perché mormone.
Con queste preoccupazioni, McCain esprime dunque la speranza di un GOP che vorrebbe tornare a vincere. Una speranza sempre più flebile, progressivamente schiacciata da faziosità velleitarie e inconcludenti. Ed è per questo che forse ai repubblicani serve il monito di un veterano, per uscire dal Vietnam in cui si sono cacciati.
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