America
USA 2016, Jeb Bush Strikes Back
Jeb Bush è da poche ore tornato nella sua Florida, in vista di alcuni appuntamenti elettorali. Per quanto difatti le primarie in questo stato si terranno non prima del mese di marzo, esso rappresenta comunque un terreno decisivo per la campagna di Jeb: sia simbolicamente (è stato suo governatore dal 1999 al 2007) sia pragmaticamente (garantisce difatti un numero piuttosto cospicuo di delegati). Una sorta di feudo elettorale insomma, se non fosse per la concorrenza fratricida, messa in campo dal suo ex pupillo, il senatore Marco Rubio: quantunque, sondaggi alla mano, in questo momento Bush sembrerebbe in testa con il 25% dei consensi, staccando Rubio di non pochi punti percentuali. Lo stesso Donald Trump (incubo di Jeb nel New Hampshire) non parrebbe avere qui significative chances di vittoria (arrestandosi infatti attorno a uno scarno 7%).
Durante una serie di incontri nella zona di Orlando, Bush non ha perso tempo. Prendendo le mosse dal radicalismo che attraversa ormai il GOP da mesi (stigmatizzato ieri anche dallo stesso Obama), ha presentato sé stesso come candidato moderato, affidabile e inclusivo, con il chiaro intento di smarcarsi – una volta di più – dalla compagine ultraconservatrice del suo partito. Un’aura di rispettabilità e di gentilezza è quanto tradizionalmente la dinastia Bush (a partire dal padre) tende a cucirsi addosso in occasione delle competizioni elettorali: una rispettabilità calma, serena, educata e rassicurante, cui si legano sovente attacchi venefici nei confronti dei propri avversari. Una strategia predatoria di machiavellica spietatezza (e collaudata efficacia), che Jeb sta già utilizzando, nella speranza di demolire i suoi più pericolosi nemici.
E difatti proprio su una simile prospettiva è venuto ad impostarsi il tenore dei suoi discorsi. Come riporta oggi il “New York Times”, Jeb ha sostenuto (quasi evangelicamente) la necessità di “uomini e donne di buona volontà che inizino a risolvere i problemi”, al di là dunque di ogni settarismo estremistico e ideologizzato. Una prospettiva che per l’ex governatore della Florida non sembra avere soltanto una valenza (per così dire) etica ma anche – primariamente – politica: essendo ben consapevole di come il radicalismo (libertario e religioso) abbia impedito al GOP di conquistare la Casa Bianca per ben due volte consecutive.
In tal senso, prosegue Bush, è doveroso riscoprire quel “web of civility”, fondamentale per la costruzione di un sano e concreto progetto politico. Una necessità che è oggi messa seriamente in pericolo da una “democrazia paralizzata”, in quanto ostaggio di opposti estremismi che la dilaniano irresponsabilmente. Un’affermazione – questa – vigorosa, per quanto – chiosa Bush – indubbiamente rischiosa in termini di primarie: un’affermazione con cui evidentemente mira già da ora a presentare sé stesso quale unico, vero e credibile candidato alla presidenza degli Stati Uniti d’America.
E la stilettata (neppur tanto implicita) a Trump è arrivata proprio sulla questione dell’immigrazione ispanica: uno dei punti salienti del programma elettorale di Bush e – non a caso – una problematica particolarmente avvertita in uno stato come la Florida, in cui il voto ispanico risulta sempre più decisivo (soprattutto poi a seguito della crisi finanziaria di Porto Rico, che sta portando sempre più immigrati ispanici nel “Sunshine State”).
Jeb ha allora ricordato che il respingimento aprioristico non può essere incluso nei valori americani. E ha soprattutto rammentato come – contrariamente alle tesi del miliardario – il vero problema immigratorio non provenga più dal Messico ma bensì dall’America Centrale (un modo elegante per rimarcare la scarsa preparazione del rivale sulla questione). E non a caso ha chiaramente sottolineato di “non essere Trump” : di non essere cioè un “candidato mosso dal risentimento”.
Da qui, l’ex governatore è poi passato all’attacco di un altro candidato alla nomination repubblicana, quel Mike Huckabee che nei giorni scorsi ha pesantemente paragonato l’accordo con l’Iran sul nucleare all’Olocausto, suscitando lo sdegno dell’Anti Defamation League e dello stesso Barack Obama. E Bush (che ha ultimamente un po’ ammorbidito le sue posizioni anti-iraniane) si è inserito subito in questo filone di critiche, asserendo come non sarà con questo linguaggio estremista che l’Elefantino riuscirà vincere le elezioni del 2016.
Il punto fondamentale per Jeb è allora quello di salvaguardare il “conservative message” dall’alone populistico in cui non pochi degli attuali candidati repubblicani stanno cercando di rinchiuderlo. In tal senso, per l’ex governatore della Florida, è doveroso abbandonare le barricate e giocare d’attacco, proponendo vigorosamente un messaggio di “speranza e opportunità” concretamente rivolto a tutti.
Tutto questo evidenzia allora con chiarezza come Bush non sia assolutamente intenzionato ad alcun passo indietro e come sia energicamente pronto a dare la scalata al partito. Per quanto Trump sia difatti al momento premiato nei sondaggi (soprattutto a livello nazionale), Bush sa che l’attesa è spesso fondamentale nella strategia politica e che – alla fine dei giochi – si raccoglie sempre ciò che si è precedentemente seminato.
Bush ha capito, cioè, che rincorrere il bizzarro miliardario sul suo stesso terreno non ha alcun senso, sia elettoralmente che politicamente. Elettoralmente, perché verso il bacino radicale Trump gode – anche grazie alla sua efficace retorica – di un appeal di fatto ineguagliabile (che sta non a caso cannibalizzando la pletora degli altri candidati ultraconservatori). Politicamente, poiché – come detto – la radicalizzazione del partito equivale a sicura sconfitta in termini di general election.
La corsa di Jeb passa dunque attraverso una strategia ardita e difficoltosa, che dovrà combattere duramente contro la destra repubblicana, per cercare di trasformare un Elefantino ad oggi considerato da molti come obsoleto e impresentabile. Un Elefantino al momento sempre più ostaggio delle correnti radicali: quelle correnti che trovano in Trump il proprio vessillo rabbioso. La sfida di Jeb è allora quella di una ristrutturazione ideologica del partito, una ristrutturazione realmente inclusiva che sappia ascoltare e tesaurizzare questa rabbia, convertendola in forza positiva e propositiva.
La riscossa di Jeb Bush passa quindi attraverso una strategia battagliera e non certo irenista. Una strategia dura, a tratti subdola, che dovrà scaltramente disarcionare i competitor più pericolosi. Una strategia in perenne equilibrio tra gentilezza e perfidia, bontà e veleno. Una marcia serrata che ripaghi gli avversari della stessa moneta. Che li annienti con il sorriso sulle labbra. Che li demolisca senza pietà, anche ricorrendo a colpi bassi. Perché è così che avvengono le rivoluzioni politiche. E il segreto del potere è proprio questo: manipolare a mente fredda. Una lezione che Bush conosce bene. E il predatore difatti ha già iniziato a colpire.
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