America

Jeb Bush scende in campo e sfida democratici e destra radicale

15 Giugno 2015

Miami. L’America merita di meglio. Con queste parole Jeb Bush ha inaugurato poco fa la propria campagna elettorale, pronunciando un discorso vigoroso e misurato al tempo stesso: un discorso evidentemente finalizzato a sgomberare il campo da tutti i dubbi e i timori che sulla sua figura si sono riversati in questi mesi. I timori di aver a che fare con un politico debole, indeciso, schiacciato dalla pesante eredità del fratello.

Jeb è salito sul palco calmo, deciso e sicuro di sé, scandendo energicamente ogni singola parola, con il limpido intento di chiarire subito bene le differenze rispetto ai suoi avversari: non sono difatti mancati frequenti riferimenti alla sua passata esperienza come governatore della Florida, in aperto contrasto con l’inesperienza di gran parte dei propri competitor di area repubblicana (Cruz e Rubio in testa). Ma il bersaglio principale si è subito rivelato essere uno, uno soltanto: il Partito Democratico e quella Hillary Clinton che ad oggi sembra essere probabilmente l’unica in grado di rappresentarlo nella sua corsa per la conquista della Casa Bianca.

Dopo una serrata critica alla politica economica obamiana (tacciata di non essere stata capace di realizzare un’autentica crescita economica né un significativo aumento dei posti di lavoro, essendo costante preda di una burocrazia soffocante), Jeb è passato alla politica estera: il grande assente del discorso tenuto dalla Clinton ieri a New York. Proprio qui il nuovo rampollo di Casa Bush ha mostrato il meglio di sé, la sua grinta maggiore, costituendo notoriamente la foreign policy il suo principale cavallo di battaglia, come ha palesato il tour europeo degli ultimi giorni (soprattutto in Germania, dove Jeb ha duramente criticato l’espansionismo di Vladimir Putin, ottenendo per questo il plauso di Angela Merkel).

Sulla foreign policy dunque è stato letteralmente lapidario, asserendo come la politica estera della triade Obama, Clinton e Kerry sia stata in grado soltanto di produrre un’eredità di violenza, di caos e di “amici non difesi”, riproponendo de facto lo schema teologico-politico neocon di netta e strenua divisione tra amici e nemici: e non c’è bisogno di un grande sforzo d’immaginazione per capire che il riferimento peculiare risultasse quella guerra libica di cui la Clinton è stata – come riporta oggi Politico.com – tra le principali artefici (insieme a Samantha Power). Una visione neocon che è riecheggiata altresì nelle proposte che Jeb ha presentato in caso di vittoria presidenziale: il ritorno ad un approccio solido, potente, di deterrenza, essenzialmente fondato sull’incremento della forza militare. Un alone neocon che è sembrato ricomparire nella dura critica riservata ad Obama per la sua apertura verso Cuba: una problematica che Bush conosce bene, essendo stato governatore di uno stato (la Florida) ricca di emigrati anti-castristi.

Un alone neocon che ciononostante Jeb ha cercato altresì di smorzare, evitando la presenza sia del padre sia (soprattutto) del fratello, dalla cui politica eccessivamente aggressiva sta cercando con non poca fatica di smarcarsi: in particolar modo per quanto concerne la questione irachena. Non sarà d’altronde un caso che l’unica figura della dinastia esplicitamente (e orgogliosamente) citata da Jeb sia stata quella della madre: l’ex first lady Barbara Bush.

Non sono poi ovviamente mancati riferimenti alle tematiche sociali più spinose, in un GOP da anni spostato su posizioni sempre più conservatrici: in particolare per quanto riguarda l’istruzione e – soprattutto – l’immigrazione, rispetto a cui l’aperturismo di Jeb ha spesso suscitato non pochi mal di pancia all’interno del partito. Ma Jeb Bush non solo non si è tirato indietro ma ha rilanciato la necessità di un GOP  più moderno e aperto a frange elettorali nuove: una necessità da lui concretamente esemplificata dall’utilizzo della lingua spagnola in diversi passaggi del suo discorso. E soprattutto da una citazione di Ronald Reagan, secondo cui “i nostri vicini non sono stranieri” (e – ce lo si conceda – citare Reagan per scardinare la rigidità conservatrice sul tema dell’immigrazione è stato semplicemente geniale).

Jeb ha quindi rivendicato il suo moderatismo, ciononostante distinguendolo da un centrismo melmoso e al contempo accusando di ipocrisia quei compagni di partito che – pur di solleticare i bassi istinti dell’estrema destra – hanno sposato linee programmatiche radicali e ultraconservatrici (un riferimento – pare – neppure tanto velato al governatore del Wisconsin, Scott Walker).

Con questo discorso Jeb Bush ha mostrato coraggio. Il coraggio di sfidare non solo una potentissima front runner democratica che molti analisti danno a oggi quasi automaticamente come prossimo presidente degli States ma anche un pezzo cospicuo del GOP: quella destra radicale, fanaticamente anti-stato e intrisa di integralismo religioso, che tiene da anni in ostaggio un partito che sembra proprio per questo ormai incapace di vincere alle general elections. E per questo Jeb ha chiuso il suo discorso esclamando con vigore di correre per vincere.

Oggi, con il nuovo Bush, il GOP e l’America sembrano (e ribadiamo “sembrano”) avere una nuova possibilità nell’affrontare le sfide che il futuro riserva loro. Capiremo presto se questa possibilità sarà in grado di realizzarsi o se sarà destinata ad esaurirsi in un impotente fuoco di paglia.

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