America

USA 2016, Jeb Bush attacca Obama e Hillary sull’Iran

3 Luglio 2015

Jeb Bush ha capito una cosa. Il punto debole della sua rivale democrat, Hillary Rodham Clinton, è la politica estera. Una politica estera che la perseguita sia per le sue contraddizioni da segretario di Stato sia per l’assenza ad oggi di un programma organico sulla materia. E la foreign policy sta non a caso diventando il principale cavallo di battaglia  su cui con ogni probabilità punterà il front runner repubblicano. Che non perde tempo.

In un editoriale pubblicato ieri sul magazine conservatore Townhall.com, Bush ha affrontato analiticamente la spinosa questione delle trattative con l’Iran sul “nuclear deal”: un accordo che rappresenta uno dei capisaldi della politica estera dell’amministrazione Obama. Un’amministrazione che – soprattutto nel corso del secondo mandato – ha inaugurato un clima di progressiva distensione verso alcuni nemici storici dello Zio Sam: da Teheran all’Avana. Un accordo che tuttavia soprattutto nelle ultime settimane appare sempre più in salita, a causa di un Iran ambiguo, pronto a far saltare il tavolo delle trattative ogniqualvolta i negoziati sembrano a un passo dal chiudersi.

Un’ambiguità inquietante, che non è chiaro da che cosa sia effettivamente dovuta. Da una parte si potrebbe ipotizzare una diversità di vedute interna allo stesso fronte iraniano tra il moderato premier Rohani e il più duro ayatollah Khamenei: una diversità di vedute che esprimerebbe uno sfilacciamento nell’ambito della repubblica sciita. Uno sfilacciamento che potrebbe rivelarsi ovviamente vantaggioso per gli Stati Uniti.

L’altra possibilità è che invece il presunto disaccordo sia soltanto in realtà una farsa abilmente orchestrata da Teheran per sfibrare l’America nel corso delle trattative a Vienna. Una strategia che – se confermata – starebbe dando i suoi frutti, anche perché il New York Times ha recentemente sostenuto che l’attuale segretario di stato, John Kerry, stia letteralmente smaniando per trovare un accordo a tutti i costi: essendo – pare – velleitariamente ostinato ad ottenere un successo personale, che risollevi le sorti di un mandato fondamentalmente grigio che – con ogni probabilità – non sarà ricordato sui libri di Storia.

In un tale contesto, l’editoriale di Bush – pur non eccedendo nei toni –  mantiene una linea dura e risoluta: una linea di profonda critica verso un accordo che giudica palesemente nefasto. Il punto nodale della sua argomentazione è difatti racchiuso già nel titolo “Don’Trust Iran”: non bisogna fidarsi dell’Iran. Un Iran difatti considerato assolutamente infido, che – proprio in forza della sua natura intimamente doppiogiochista – non potrebbe rivelarsi un partner affidabile in un accordo su materie delicate come la regolamentazione nucleare.

E Bush carica a testa bassa: la minaccia principale che proviene dall’Iran sorge direttamente dalla sua storia radicalmente anti-statunitense, nel nome di una guerra fanatica e senza quartiere, che affonda le sue violente radici nella rivoluzione khomeinista e nella sua conseguente fatwa verso la bandiera a stelle e strisce: il “Grande Satana”.  Una guerra totale che Bush mostra di tenere ben presente, rispolverando all’uopo un caposaldo fondamentale della politica estera di suo fratello, George Walker: l’Iran – afferma chiaramente Jeb –  “is the world’s most active state sponsor of terrorism”, avendo supportato trasversalmente negli anni varie organizzazioni armate e terroristiche, non propriamente amiche dello Zio Sam: da Hezbollah ad Hamas, arrivando infine alla stessa Al-Qaeda. Un Iran pericoloso dunque che risulterebbe addirittura complice nell’attentato dell’ l’11 settembre. Quello che George Walker insomma avrebbe definito (e definì) uno “stato canaglia”.

Ma l’anti-americanismo non rappresenta l’unico problema di un eventuale accordo con l’Iran. Bush attacca difatti anche  sulla questione della stabilità mediorientale. Le giustificazioni fornite da Obama per questa sua politica di distensione con Teheran sono difatti state generalmente due: nel breve termine, allargare il fronte anti-ISIS; nel lungo, creare – oltre a Israele – un nuovo polo di stabilità in Medio Oriente, possibilmente sotto un’influenza statunitense: una sorta di parziale ritorno ad una condizione pre-khomeinista.

Jeb non ci sta su entrambi i punti: innanzitutto  l’Iran non sarebbe per lui un alleato affidabile contro le milizie di Al-Baghdadi, avendo decisamente contribuito a creare caos in Iraq e spinto conseguentemente molti jihadisti sunniti ad ingrossare le fila dello Stato Islamico.  In secondo luogo, anziché giocare a favore della stabilità, Teheran rappresenterebbe soltanto un fattore di confusione nel complicato scacchiere mediorientale: non solo per le sue storiche posizioni radicalmente avverse a Israele ma anche in quanto repubblica sciita e quindi ovviamente invisa a gran parte dell’universo sunnita: basti pensare al supporto fornito da Teheran alla minoranza houthi nello Yemen in funzione anti-saudita e contro Al Sisi (generale che – paradossalmente – si trova oggi ad essere alleato di Obama).

Infine – chiosa Jeb – l’Iran a livello interno si configurerebbe come una spietata dittatura, del tutto estranea ai valori occidentali di libertà e democrazia. Una nuova, evidente, eco neocon di dura lotta verso i regimi liberticidi e autoritari: un’eco non del tutto estranea ai principi della Dottrina Bush e alle sue teorizzazioni sull’esportazione della democrazia, nonché sulla guerra preventiva.

L’ex governatore della Florida è quindi netto: il grande problema della foreign policy targata “Obama-Clinton-Kerry” non è soltanto quello di mostrare debolezza nelle trattative (con conseguente lesione per gli Stati Uniti in termini di immagine) ma anche – e soprattutto – quello di non avere una strategia geopolitica organica sulla materia mediorientale: di non avere chiara comprensione delle problematiche locali e di essere conseguentemente una triade di incompetenti che sta mettendo in mano ad un regime terroristico la possibilità di risollevarsi (attraverso la riduzione delle sanzioni) e diventare quindi una minaccia ancor più grande per gli Stati Uniti e la comunità internazionale.

E’ abbastanza evidente dunque come i bersagli di questo duro editoriale siano due. In primo luogo, Barack Obama. Un Obama di cui l’ex  governatore della Florida critica una politica di distensione, giudicata arrendevole, contraddittoria e inconcludente. Una politica che apre a storici nemici (Iran e Cuba), per chiudere a storici alleati (Israele). Una politica torbida, incapace dunque di dividere chiaramente il mondo tra amici e nemici: incapace di essere unilaterale e assertiva, secondo i crismi classicamente propugnati dal neoconservatorismo (si pensi soltanto all’orgoglioso discorso pronunciato da Condoleezza Rice a Tampa nel 2012). Un neoconservatorismo che Jeb sembra stia riportando in auge, nel nome di una strategia chiara e decisa.

Ma in particolar modo, il principale bersaglio non può ovviamente che essere Hillary Clinton. Per quanto venga citata una sola volta, quasi en passant, nel corso dell’editoriale, è pur vero che la sua ombra vi ricorra a più riprese. Il suo tallone d’Achille – come detto –  è difatti proprio la foreign policy, su cui la front runner democratica non ha ancora uno straccio di programma. Ed è proprio sulla sua esperienza da segretario di stato che Jeb sembra voler appuntare i suoi strali. Non soltanto a causa dei suoi clamorosi fallimenti (si pensi al conflitto libico) ma anche – più nello specifico – a causa della sua contraddittoria posizione sull’Iran.

Che la Clinton sia ormai una voltafaccia professionista non è più un mistero: ha difatti cambiato improvvisamente idea su un imprecisato numero di questioni (controllo delle armi, nozze gay, riforma sanitaria, ecc.). E la politica estera non poteva ovviamente fare eccezione: da senatrice ha sempre appoggiato George Walker Bush nell’asserire che l’Iran fosse uno “sponsor del terrorismo”. Durante le primarie del 2008 mantenne poi una posizione fortemente anti-iraniana, criticando la linea morbida di Obama sulla questione. Diventata infine segretario di stato, si è allineata alla volontà presidenziale e ha intavolato le trattative con Teheran. E – dulcis in fundo –  proprio in questi giorni sta dichiarando di essere comunque grande amica di Israele. La sua solita coerenza.

Jeb Bush sa di giocarsi la partita della vita. E sembra abbia capito quale strategia adottare. Mettere gli americani davanti a una scelta: tra una distensione basata su garanzie vacillanti e l’assertività di una potenza che non vuole soccombere. Tra la riluttanza e la risoluzione. Tra i colori del credo pacifista e il pericolo oscuro di una minaccia strisciante: l’Asse del Male.

 

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