America
USA 2016, Jeb Bush attacca Hillary Clinton sull’ISIS
Jeb Bush torna all’attacco di Hillary Clinton. E lo fa sul terreno maggiormente scivoloso per l’ex first lady: quello della politica estera.
Erano giorni che il rampollo di Casa Bush non attaccava direttamente la front runner democratica. Addirittura, in occasione di un evento organizzato in Florida dalla “National Urban League”, aveva rifiutato di polemizzare con Hillary, che pure lo aveva accusato di contraddittorietà durante il suo mandato governatoriale. Un atteggiamento di basso profilo, che Jeb ha mantenuto anche durante il dibattito televisivo dello scorso giovedì: pare una strategia, per distinguersi dai suoi rissosi rivali, che – di contro – non perdono mai occasione per attaccare ripetutamente l’ex first lady su qualsiasi questione.
Ma ieri Bush è tornato all’attacco. Forse per riscattarsi dal pallidume della performance di Cleveland, forse seguendo una tattica studiata. Ma l’ha fatto. E nella maniera più dura possibile. L’occasione è stata un discorso tenuto alla “Ronald Reagan Library”, essenzialmente dedicato a quella foreign policy da sempre suo cavallo di battaglia e principale elemento della propria offerta programmatica. Non è d’altronde la prima volta che l’ex governatore della Florida attacca Hillary su questo fronte. Ma stavolta Bush è andato dritto a un problema ben preciso: quello Stato Islamico che – con la sua attività bellica e terroristica – minaccia costantemente la stabilità mediorientale e la sicurezza internazionale.
Punto nodale dell’argomentazione di Jeb è una critica serrata al disimpegno obamiano in politica estera, un disimpegno di cui sarebbero complici tanto Hillary quanto John Kerry. Un disimpegno che, attuando un progressivo ritiro delle truppe americane dal Medio Oriente, avrebbe favorito quegli stessi gruppi jihadisti, che sarebbero poi arrivati a fondare l’ISIS.
Bush non ha mostrato mezze misure nel definire lo Stato Islamico come intrinsecamente “malvagio”, un mostro geopolitico contro cui è necessario che tutte le nazioni civilizzate – e soprattutto quelle potenti – si armino per abbatterlo. Una chiamata a raccolta, che evidenzia non soltanto una finalità pragmaticamente politica ma anche un dichiarato sforzo di contrapposizione ideologica, che sia in grado di riproporre energicamente quei valori occidentali che una politica estera debole hanno finito con l’offuscare. Un discorso duro, quello di Jeb, evidentemente pregno di un roboante tono neoconservatore, che riecheggia non a caso i princìpi interventisti, tanto cari a suo fratello, George Walker. Un discorso chiaramente mirante a presentare Hillary Clinton come un segretario di Stato inetto, debole e contraddittorio: una figura grigia, fallimentare e pertanto inadatta ad occupare lo scranno presidenziale.
Di per sé, il discorso alla “Reagan Library” non sembrerebbe costituire una notevole novità: le posizioni tendenzialmente neocon di Jeb in politica estera sono note. Così come risapute sono le sue critiche a Hillary come segretario di Stato. Eppure questo discorso non solo non è passato inosservato ma sta suscitando in queste ore un vispo dibattito polemico in seno all’agone politico statunitense. Un dibattito che promette di diventare sempre più centrale, in seno alla corsa per le presidenziali del 2016.
Eh sì, perché scegliendo di concentrarsi direttamente sull’ISIS, Jeb viene nuovamente a scoperchiare l’annoso problema dei suoi rapporti con le scelte politiche attuate dal fratello, soprattutto per quanto concerne la guerra in Iraq. Un argomento, quest’ultimo, che ha rappresentato per mesi una spina nel fianco dell’ex governatore della Florida, il quale ha cercato a più riprese di smarcarsi dall’eredità fraterna, tentando di presentarsi come uomo nuovo e candidato autonomo.
Un tentativo che lo ha condotto a inciampare più di una volta: per lungo tempo ha difatti tenuto una posizione ambigua in relazione al proprio giudizio sull’invasione irachena, evitando di schierarsi troppo nettamente. Poi, all’improvviso (probabilmente consigliato dai suoi spin doctor) ha dichiarato che quella scelta fu erronea, per quanto difficilmente valutabile nel momento esatto in cui venne presa. Anche durante il dibattito di Cleveland, pur affermando di essere orgoglioso tanto di suo padre che di suo fratello, ha ribadito categoricamente questa posizione. Una linea che – chiaramente – ha come principale obiettivo quello di svincolarsi da una delle politiche americane più impopolari degli ultimi anni.
Alla luce di tutto questo, il discorso alla “Reagan Library” assume un significato profondamente particolare: scegliendo di attaccare la rivale democratica sull’ISIS, Jeb mostra di adottare una strategia non più difensiva ma di attacco: netto e deciso. Pur ribadendo la sua recente posizione sul conflitto iracheno, l’ex governatore della Florida tenta – con questo discorso – di ribaltare i termini della questione. Ammesso che l’invasione del fratello sia stata un errore, la nascita dello Stato Islamico non sarebbe tanto una conseguenza di quella scelta politica quanto – come detto – di un progressivo disimpegno, che avrebbe lentamente portato l’America a rinunciare al proprio ruolo di leadership globale. Una tesi che – evidentemente – cozza con quella – popolare tra i liberal – secondo cui lo Stato Islamico sarebbe sorto a causa della destabilizzazione mediorientale, dovuta all’invasione dell’Iraq.
In tal senso, come riporta “Politico”, la macchina da guerra clintoniana si è già messa in movimento. Brad Woodhouse, presidente di un’associazione del network di Hillary, ha replicato attaccando direttamente George Walker Bush e la sua politica estera “distruttiva”. E il consigliere politico di Hillary, Jake Sullivan, ha rincarato la dose – come prevedibile – esattamente nella medesima direzione.
Ulteriore elemento di disfida sembra poi al momento essere la strategia proposta per fronteggiare l’ISIS. A fronte di un Jeb che – pur non scendendo troppo nei dettagli – qualcosa ha detto (supporto militare alle truppe curde e irachene, nonché massiccio utilizzo dell’aviazione statunitense), dallo staff di Hillary non sembra per ora emergere alcun piano preciso: ci si è limitati a dire che ben presto saranno forniti programmi particolareggiati. Ma nulla più.
Come che sia, il discorso di Jeb, pur nelle sue ambiguità, ha dimostrato coraggio. Un coraggio che non è chiaro dove possa effettivamente condurre l’ex governatore della Florida. Le incognite e i rischi sono difatti molti: primo tra tutti, che il suo nome venga nuovamente associato alla guerra in Iraq, determinando così disaffezione (se non addirittura odio) da parte di larghe quote elettorali.
Dal canto suo, la strategia di Jeb è ciononostante chiara: smuovere l’orgoglio americano contro una politica estera – quella obamiana – giudicata debole e arrendevole; attaccare Hillary Clinton nella sua veste di (oggettivamente) pallido segretario di Stato; proporre una ricetta radicalmente differente per la stabilità mediorientale, che veda in Israele (e non nell’Iran) il proprio asse portante. E d’altronde, sotto un profilo squisitamente strategico, Jeb sa bene di non essere troppo vulnerabile sul lato degli attacchi di Hillary: visto che lei, da senatrice del New York, diede il suo totale appoggio nel 2002 a quella stessa invasione irachena contro cui ora ferocemente si scaglia.
Vecchie suggestioni neocon si mescolano alle incertezze di un futuro inquieto. L’America è di nuovo chiamata a scegliere tra una politica di potenza e una più pacata strategia distensiva. Staremo a vedere. Perché c’è qualcuno che teme lo spettro di Dick Cheney: è vero. Ma anche quello di John Kerry fa sudare freddo. E neanche poco.
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