America

USA 2016, il terzo dibattito repubblicano

29 Ottobre 2015

Dibattito nervoso, quello tra i candidati alla nomination repubblicana tenutosi ieri a Boulder (in Colorado). Un dibattito sanguinoso e cattivo, che mette chiaramente in luce come la corsa elettorale in seno all’Elefantino sia ormai entrata crudamente nel vivo: una mattanza, del tutto estranea alle dinamiche feudali di un’incoronazione dinastica (vedi alla voce “Hillary Clinton”). E – c’è da giurarci – questo dibattito è destinato ad alterare profondamente gli equilibri interni alla competizione repubblicana.

Grande sconfitto è risultato – ancora una volta – Jeb Bush. Dopo le pallide performance sostenute nel corso dei due precedenti confronti in Ohio e in California, le aspettative dell’elettorato e – soprattutto – dei suoi sempre più scettici finanziatori erano assai elevate. Lui stesso negli ultimi giorni aveva cercato di iniettare forza alla sua debole campagna elettorale, coinvolgendo in prima persona il fratello, George Walker, dopo aver cercato per mesi di smarcarsi dalle sue posizioni sulla guerra in Iraq. Eppure, se nei precedenti dibattiti Jeb si era fermato al grigiore, stavolta è rimasto scottato. E male, anche.

Ha attaccato direttamente l’ex pupillo, Marco Rubio, rimproverandogli di non svolgere adeguatamente il suo incarico senatoriale a Washington a causa della campagna elettorale. Ma Rubio l’ha fulminato: guardandolo negli occhi, ha ricordato all’ex governatore della Florida di non aver mai polemizzato con John McCain quando, da senatore, corse per la nomination. Gli ha poi rinfacciato di attaccarlo soltanto per rivalità personale e ha infine dichiarato di non essere interessato alle scaramucce interne al GOP.

Per tutta la durata del dibattito, tra l’altro, Rubio ha evitato di polemizzare con rivali di partito, attaccando direttamente Hillary Clinton sul caso Bengasi e il mainstream mediatico, giudicato troppo spostato a sinistra, guadagnandosi per questo l’ovazione del pubblico. In tal senso, alla fine dei giochi, è stato lui ad emergere come il candidato presidenziale: l’unico in grado di incarnare la forza del sogno americano, in un messaggio di speranza che i contenders non sono stati capaci di rappresentare (presi, com’erano, a criticare un budget deal, quasi completamente ignorato dal candidato cubano).

Traballante, Donald Trump. Non si è eclissato ma non appare più sornionamente a suo agio come quest’estate. Gli slogan iniziano ad essere logori e la sua arzilla retorica comincia a dare segni di stanchezza. La concorrenza di Ben Carson si fa sentire e il fulvo magnate probabilmente non dorme più sonni tranquilli. Un Carson che ha giocato molto sulla difensiva, restando sulle sue ed evitando polemiche dirette con gli altri: forse temendo attacchi per il suo programma non propriamente coerente (dalla bioetica al gun control).

Iperattivo e a tratti quasi simpatico, Ted Cruz. Anche lui scatenato contro i mass media in mano ai democratici, ha rivendicato con orgoglio di essere un “combattente”. Ha cercato di fare in modo che Trump e Carson si scannassero tra loro, per presentarsi alla destra radicale come l’unico in grado di realizzare concretamente le loro proposte programmatiche.

Deludente, Carly Fiorina. Emersa nel dibattito alla Reagan Library, ieri non ha mostrato guizzi veramente significativi, limitandosi a tirate contro il socialismo e a difendere la sua chiacchierata esperienza manageriale. Si sta rivelando sempre più quello che probabilmente è: un fuoco di paglia.

Ormai bollito, Rand Paul. Non solo ha ricominciato con le consuete polemiche contro il big government ma si è messo anche a protestare per il trattamento ricevuto, non ritenendosi adeguatamente valorizzato (dai camerini alle domande). Non ha praticamente alcuna speranza di vincere e l’establishment dell’Elefantino starebbe cercando di convincerlo a concentrarsi esclusivamente sulla corsa per il Senato.

E difatti, al termine di questo nuovo dibattito, già partono le elucubrazioni su chi sarà il prossimo a ritirarsi. I numeri direbbero proprio Paul ma – si sa – il padre Ron nel 2012 abbandonò tardissimo la corsa, quando da mesi ormai la matematica lo aveva condannato. Occhio poi a Chris Christie: il governatore del New Jersey nei sondaggi è in difficoltà e ieri non si è distinto particolarmente. Sarà lui il prossimo a lasciare?

 

 

 

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