America
USA 2016, il senso di Carly per la politica
Terminato il dibattito repubblicano alla Reagan Library, è tempo di bilanci. Sui vincitori, sui vinti, sull’impatto mediatico e la coerenza programmatica. Un profluvio di commenti è stato prodotto nelle ultime ore: commenti, che riguardano soprattutto i personaggi risultati maggiormente incisivi (da Trump a Rubio, passando per Carson e Bush).
Sennonché – a detta di molti – la vera sorpresa del dibattito si sarebbe rivelata Carly Fiorina: ampi settori dell’universo mediatico (soprattutto italiano) guardano oggi a lei come all’autentica vincitrice del confronto. L’unica donna che – in una pletora rissosa di maschi – sarebbe stata in grado di tener loro testa, attraverso uno stile duro, energico, deciso: uno stile, rinsaldato da un programma netto e chiaro, che le avrebbe permesso di emergere efficacemente dalla tumultuosa confusione dei suoi competitor. Un interesse forte, in particolare dettato dallo scontro (in buona parte vittorioso) da lei ingaggiato con Donald Trump: uno scontro duro, che – secondo diversi analisti – farebbe di Carly la vera avversaria del biondo magnate.
E giù allora lodi ed encomi alla coraggiosa candidata che riscatta la dignità femminile e argina il pericoloso populismo di Trump! La donna che adesso marcia, decisa, verso la nomination e – chissà – forse verso la Casa Bianca! Qualcuno addirittura oggi già pregusta un duello tutto femminile tra Carly e Hillary Clinton (si capisce: Emailgate permettendo!). Tutto un tratto allora ci si accorge dell’esistenza e della formidabile bravura di una candidata che – scesa in campo a inizio maggio – finora (soprattutto in Italia) fondamentalmente nessuno si era mai filata.
Ora, al di là dell’entusiasmo generale che circonda al momento la sua figura, sarebbe forse opportuno tornare realisticamente con i piedi per terra e cercare di analizzare le effettive possibilità che l’ex CEO di HP abbia di conseguire la nomination repubblicana: evitando facili automatismi.
Innanzitutto un dato incontrovertibile. Partita a maggio in sordina, Carly ha effettivamente dato una svolta energica alla propria campagna elettorale a partire dai primi di agosto. Rimasta sino ad allora inchiodata a percentuali ridicole di gradimento, in occasione del primo confronto repubblicano a Cleveland, dovette accontentarsi di partecipare al dibattito pomeridiano (riservato ai candidati sprofondati nella bassa classifica). Fu tuttavia l’unica tra i suoi competitor ad effettuare una performance energica e tanto le bastò per avviare una netta ascesa nei sondaggi (soprattutto in Iowa, dove, dagli ultimi posti, si trovò nel giro di pochi giorni catapultata alla quarta posizione, subito dietro l’ex front runner, Scott Walker). Un’ascesa che le ha di fatto consentito di essere l’unica “promossa” dal dibattito pomeridiano a quello dei big, in occasione del confronto di mercoledì alla Reagan Library. Tutto questo evidenzia allora l’indiscutibile abilità mostrata da Carly nel condurre una campagna iniziata decisamente in salita e che adesso la vede invece ai primi posti della corsa. Chapeau!
Detto questo, attenzione agli entusiasmi ingenui. E’ difatti molto difficile che Carly riesca ad imporsi, per una serie di ragioni.
In primo luogo, una questione squisitamente politica. Nel corso di questa campagna, la Fiorina ha impostato tutta la propria strategia di immagine su una figura di “self made candidate”: ha aspramente polemizzato con i “politici di professione”, ribadendo la propria esperienza professionale e il successo ottenuto nel settore privato. Ora, senza voler stare qui a sottolineare che il successo nel privato non si trasformi automaticamente in competenza politica e senza voler rivangare i suoi trascorsi tutt’altro che eccellenti come CEO di HP, c’è da ricordare un elemento essenziale: nonostante la retorica con cui si è presentata, Carly Fiorina non è veramente un’antipolitica. Anzi. Le vie della politica le ha sempre tentate e sovente con scarso (per non dire irrisorio) successo.
Nel 2008 fece di tutto per farsi scegliere da John McCain come candidata alla vicepresidenza degli Stati Uniti. Le fu preferita l’eroina del Tea Party, Sarah Palin. Carly non prese bene la cosa e non perse occasione per punzecchiare l’ex governatrice dell’Alaska con la solita tiritera della propria impareggiabile carriera professionale. L’establishment repubblicano non mancò di fulminarla e lei – alla fine – rientrò nei ranghi e diede il suo appoggio. Nel 2010 si candidò poi, per conquistare il seggio senatoriale in California. E fu letteralmente annientata dalla democratica Barbara Boxer. Segni, questi, che evidenziano le non eccellenti capacità elettorali di Carly, nonché il fatto che la sua recente battaglia antipolitica non possa definirsi del tutto autentica.
In secondo luogo, troviamo un problema sul piano programmatico. Le proposte economiche avanzate dalla Nostra sono orientate a un acceso ultraliberismo. Ora, siamo veramente sicuri che sia di una simile prospettiva che il GOP abbia bisogno in questo periodo storico per vincere? Non c’è il rischio di replicare la disfatta di Mitt Romney, che nel 2012 aveva puntato tutto su un programma economico assai fortemente volto al libero mercato? Non sarà un caso d’altronde che diversi candidati nell’attuale competizione repubblicana si siano collocati su posizioni economiche più moderate (si pensi per esempio a Bush, Rubio, Kasich e Christie).
Inoltre, un ulteriore pericolo per Carly potrebbe infine rivelarsi paradossalmente quello di essere identificata come l’anti-Trump. Per quanto una simile figura al momento non possa che giovarle (e – anzi – alla base del suo successo alla Reagan Library vi sarebbero proprio i suoi accesi scontri con Donald), a lungo andare quest’immagine potrebbe danneggiarla: legandosi – ancorché polemicamente – alla figura del miliardario, potrebbe condividerne le sorti in caso di un suo declino, rendendo così superfluo il proprio ruolo.
Infine, un’annotazione storica. Sovente i candidati in ascesa tra settembre e novembre dell’anno precedente alle elezioni presidenziali, finiscono per rivelarsi dei fuochi di paglia (ne sanno qualcosa Rudolph Giuliani, Rick Perry e la stessa Hillary Clinton).
La via che Carly dovrà percorrere è dunque pericolosamente stretta. O riuscirà a brillare di luce propria (rivedendo magari alcune sue posizioni programmatiche in chiave maggiormente moderata) o si autocondannerà ad essere una meteora macchiettistica, incapace di sostenere il peso di una campagna elettorale, che si preannuncia feroce e violenta. Lei intanto si gode il successo e si definisce orgogliosamente una “combattente”. Benissimo. Purché sappia mirare. E soprattutto colpire.
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