America
USA 2016, il repubblicano Rick Perry si ritira
Ci risiamo. Anche stavolta l’ex governatore del Texas, Rick Perry, si è ritirato ben poco gloriosamente dalla competizione elettorale per la nomination repubblicana. Lo ha annunciato ieri durante un discorso tenuto a St. Louis, affermando di non avere rimpianti e di essere ormai pronto per il prossimo capitolo della sua vita: un capitolo – sembrerebbe – tutto proteso verso casa e famiglia.
I sostenitori mostrano musi lunghi, dichiarando che – pur rispettandone la decisione – continuano a considerare Rick l’uomo giusto per guidare la Casa Bianca. I rivali repubblicani dal canto loro fanno i dispiaciuti. Da Graham a Bush, passando per Rubio, Cruz e Santorum: tutti a sottolineare la preparazione, l’ardore e la competenza dell’ex governatore. Perfino Trump (con cui Perry ha aspramente polemizzato nell’ultimo mese) lo ha definito “terrific guy”. Tutti a piangere, insomma, quantunque non sia da escludere che questa solidarietà ostentata serva a mascherare il sollievo dei rivali che si ritrovano in fin dei conti con un problema in meno.
Del resto, la campagna di Perry non ha mai effettivamente ingranato. Senza poi contare come non fosse neppure nata sotto i migliori auspici, visto il precedente delle scorse primarie. Allorché difatti scese in lizza per la nomination repubblicana nel 2011, tutti guardavano a lui come al prossimo candidato per la conquista della Casa Bianca. Non solo aveva mostrato una formidabile abilità nelle competizioni elettorali, avendo ripetutamente vinto in Texas nel 2002, nel 2006 e nel 2010. Non solo, da governatore, aveva dato prova di una discreta competenza amministrativa. Ma apparve allora come il candidato in grado di federare efficacemente un Elefantino sempre più diviso tra un’ala moderata e una radicale, proprio per la sua capacità di risultare attrattivo tanto per l’elettorato conservatore (religious right in primis) quanto per quello maggiormente centrista e vicino alle politiche di George Walker Bush (di cui Perry era stato vice sino al 2000).
Sennonché, tra dibattiti, discorsi e video postati su youtube, il povero Rick finì per inanellare una serie crescente di gaffe che ne minarono profondamente la credibilità. Tanto che – duramente sconfitto al caucus dell’Iowa nel gennaio del 2012 – decise poco dopo di abbandonare la corsa elettorale, dichiarando il proprio endorsement per Newt Gingrich.
Ebbene, nonostante tutto, quest’anno aveva deciso di riprovare. Il 4 giugno aveva ufficialmente annunciato la propria discesa in campo, asserendo energicamente di aver studiato, di essersi preparato e di essere dunque finalmente pronto per la conquista dello Studio Ovale. Una scelta secondo alcuni coraggiosa, secondo altri velleitaria, secondo altri ancora folle. Eh sì, perché sin da subito era chiaro che stavolta la strada per Rick si sarebbe rivelata in salita. Decisamente.
Innanzitutto è entrato in competizione, portandosi ancora dietro l’immagine di candidato impreparato, gaffeur e poco affidabile. E la tiritera che ha ripetuto in questi mesi sui suoi studi, ben lungi dall’allontanare siffatta immagine, non ha fatto che consolidarla, suonando molto come una excusatio non petita.
In secondo luogo, sin da subito l’ex governatore del Texas ha puntato su una figura di conservatore duro e puro, non considerando che – differentemente dal 2012 e dal 2008 – stavolta l’ala ultraconservatrice risultasse stracolma di candidati (molti dei quali decisamente più giovani di lui). In tutto questo, non ha mai presentato qualità o innovazioni programmatiche che gli offrissero un serio vantaggio competitivo: e difatti si è eclissato.
Ma soprattutto, a partire dalla metà di giugno, ha dovuto fare i conti – come i suoi compagni – con il ciclone Donald Trump. Un Donald Trump che – se ha indubbiamente sparigliato le carte all’interno del GOP, mettendo in crisi quasi tutti i candidati repubblicani (Bush in testa) – ha comunque rappresentato un pericolo proprio per l’universo ultraconservatore: diversi esponenti di quell’area (pensiamo per esempio a Santorum) sono stati letteralmente fagocitati dal miliardario: che si è intestato numerosi vessilli della destra radicale, risultando al contempo difficilmente eguagliabile in termini di retorica ed efficacia comunicativa.
In tutto questo Perry ha cercato di barcamenarsi come poteva. Ma è rimasto inchiodato sempre a percentuali irrisorie. Tanto che in occasione del dibattito di Cleveland dovette accontentarsi di partecipare al confronto pomeridiano (quello riservato ai candidati collocati sotto il 4%). E per quanto in quel consesso noiosissimo fosse stato tra i pochi ad effettuare una discreta performance (nulla di che sul piano programmatico ma almeno teneva briosamente sveglio l’uditorio assonnato), alla fine a ben poco gli è servito.
Da metà agosto, poi, notizie sui suoi problemi hanno iniziato a circolare sempre più insistentemente: sondaggi catastrofici, difficoltà nel reperimento di fondi, una macchina organizzativa fondamentalmente inceppata con attivisti senza più stipendio. Si comprende chiaramente allora come da qui alle ipotesi su un suo ritiro il passo sia stato breve. Tanto più che simili ipotesi sono state energicamente avanzate da Trump a inizio settembre: il magnate ha deriso l’ex governatore per le sue percentuali ridicole, profetizzando una sua imminente defezione. Un attacco durissimo che ha spinto Rick ha replicare di non essere assolutamente intenzionato a retrocedere. Le ultime parole famose.
In virtù di tutto questo, si comprende chiaramente come il ritiro di un candidato che non è mai stato effettivamente in corsa non prometta di per sé chissà quali stravolgimenti futuri. Ma un paio di considerazioni sono comunque da tener presenti. In primo luogo, l’uscita di Perry potrebbe rapidamente preludere al ritiro di candidati, più o meno inchiodati alle sue stesse percentuali (per esempio Santorum o Gilmore): dato, questo, che porterebbe ad una relativa semplificazione della turbolenta e sovraffollata corsa repubblicana.
In secondo luogo, più nello specifico, il ritiro di Perry potrebbe avvantaggiare il senatore texano Ted Cruz, in termini di attrattività per i donatori e – conseguentemente – di raccolta-fondi. Un dato interessante, che potrebbe consentirgli di rafforzarsi: un’ipotesi – questa – che indirettamente potrebbe riguardare positivamente lo stesso Donald Trump. Non è ormai difatti un mistero la simpatia che da mesi lega Cruz al biondo magnate: tanto che il giovane senatore lo ha più volte difeso contro l’establishment repubblicano e gioca ora con lui di sponda nel contrasto all’Iran Deal.
Come che sia, sulla candidatura di Rick Perry cala il sipario. E una lacrima versiamola pure: ricordava vagamente John Wayne e in fin dei conti non era antipatico.
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