America

USA 2016, il programma ambientale di Hillary Clinton non convince a sinistra

29 Luglio 2015

Stati Uniti. La questione ambientale diventa centrale nel dibattito elettorale per le presidenziali del 2016. Un tema sempre più cruciale soprattutto nello scontro interno alla compagine dem, storicamente più sensibile alla questione dell’inquinamento e del “climate change”.

In tal senso, da alcuni giorni, la front runner democratica, Hillary Rodham Clinton, ha avviato una capillare campagna di comunicazione, finalizzata alla diffusione del proprio programma ambientale ed energetico. E lo ha fatto soprattutto con due comizi tenuti domenica e lunedì, nel corso del proprio tour elettorale in Iowa (dove – al momento – i sondaggi la danno saldamente in testa). Due comizi, cui stanno facendo comunque eco svariati spot televisivi inerenti al tema e un forte battage mediatico sui social network (Facebook e Twitter in particolare).

Ora, il programma clintoniano di politica ambientale si articola in una serie di punti abbastanza definiti: senza dubbio il centro gravitazionale, intorno a cui ruota l’intero impianto programmatico risiede nella valorizzazione dell’energia rinnovabile. Una valorizzazione esplicitamente finalizzata al contrasto dell’inquinamento e di quel “climate change” che – dai tempi di Al Gore – si è sempre più imposto come elemento-chiave del dibattito interno all’Asinello: senza citare poi l’indubbia influenza esercitata in questi termini dall’ultima enciclica papale.

In tal senso, Hillary promette l’installazione di cinquecento milioni di pannelli solari, con l’intento di arrivare a disporre di una “solar capacity” di ben centoquaranta gigawatts (l’equivalente – secondo lei – dell’energia prodotta da centoquaranta reattori nucleari). Ma se il solare si pone sin da subito come il suo cavallo di battaglia, non vengono comunque tralasciate altre forme di energia rinnovabile, come l’eolica e la geotermica.

A tutto questo, l’ex first lady aggiunge un piano di incentivi e sgravi fiscali per le aziende che investano in energia pulita, promettendo altresì una riduzione del consumo petrolifero e una progressiva modernizzazione delle infrastrutture energetiche. Un programma dunque particolarmente articolato, che lei stessa definisce organico ed ambizioso. Un programma che difende a spada tratta contro quei repubblicani, definiti “irresponsabili”, in quanto – con la loro ridicolizzazione del problema del “global warming” – si ostinerebbero a negare l’evidenza, contro prove scientifiche inconfutabili (e non a caso i bersagli principali della front runner sono stati qui Jeb Bush, Donald Trump e Bobby Jindal: quello stesso Jindal che sostenne in passato come la teoria del global warming fosse un’invenzione democratica, finalizzata a un’espansione indiscriminata del potere federale).

Per questo, la strategia retorica della Clinton è tutta orientata a presentare le sue proposte programmatiche non solo come suffragate scientificamente ma anche come frutto di mero buon senso: un buon senso tutto ovviamente proteso alla salvaguardia della grande famiglia, targata “Zio Sam”. Ha difatti affermato:«Non sono una scienziata: ma una nonna con un cervello e due occhi!».

Sennonché, nonostante i proclami di coraggio e innovazione, in realtà il programma ambientale della Clinton ha suscitato non poche perplessità. E non parliamo tanto del fronte repubblicano, che l’ha sostanzialmente tacciato di demagogia e di essere biecamente strumentale all’aumento delle tasse. No. Il vero punto interessante è il vespaio di critiche sorte da sinistra. Da una sinistra che non sembra particolarmente convinta dalle proposte dell’ex first lady.

Innanzitutto forti dubbi vengono nutriti dalla società civile. Diverse associazioni verdi hanno difatti sottolineato la profonda ambiguità della via clintoniana. Se appare difatti indubbio l’impegno a favore delle energie rinnovabili, è altrettanto palese una forte reticenza a parlare apertamente di alcune questioni: soprattutto se legate alla grande industria del petrolio. Non pochi attivisti difatti hanno iniziato a porsi interrogativi ben precisi: in che relazioni è Hillary Clinton con le industrie petrolifere? Supporta o no le trivellazioni in determinate zone? Ma soprattutto: qual è la sua posizione sull’oleodotto Keystone XL? Un’opera la cui realizzazione – ricordiamolo – è da alcuni anni al centro di un accanito dibattito negli Stati Uniti, proprio perché si temono disastri sul fronte dell’impatto ambientale: sono difatti paventate pericolose emissioni di carbonio e conseguentemente uno sconvolgimento dell’ecosistema.

Proprio per questo, i rivali democrat non perdono tempo e vanno all’attacco. Il candidato socialista, Bernie Sanders, pur riconoscendogli alcune buone idee, ha aspramente affermato che il programma di Hillary non è abbastanza. In tal senso, ha ribadito energicamente la propria storica avversione all’oleodotto Keystone, rimarcando – una volta di più – la sua lontananza da una front runner, considerata fondamentalmente un’esponente della destra.

Anche Martin O’Malley (piazzato al terzo posto) sta cercando di usare il tema ambientale per tentare di risalire in quei sondaggi che oggi lo danno a un deludente 4%. Criticando l’ambiguità della Clinton sul Keystone, ha sostenuto di voler ridurre le emissioni di gas nocivi del 25% in appena quattro anni: obiettivo che d’altronde raggiunse da governatore del Maryland. Inoltre, anche lui mostra un considerevole interesse per l’incremento delle energie rinnovabili.

Davanti a queste critiche, Hillary non ha reagito in modo netto, mantenendosi sul vago e affermando che queste proposte sarebbero soltanto l’inizio di un programma più vasto e particolareggiato. A una domanda specifica poi sulla questione del Keystone (martedì, in New Hampshire), ha declinato di rispondere. Un atteggiamento che ha aumentato l’alone di reticenza attorno alla sua figura. Una reticenza che – ancora una volta – mette in luce il grande problema politico ed elettorale dell’ex first lady: una donna che ha sempre rappresentato l’ala moderata e che oggi – per necessità – deve rivolgersi a un elettorato più radicale, decisamente fuori dalle sue corde.

Un elettorato che – nel proprio massimalismo – non perde mai occasione per ricordarle malignamente i suoi legami con i “poteri forti”: un giorno Wall Street, un altro i magnati del petrolio. Un’ambiguità di fondo dunque, che evidenzia la strutturale debolezza di quello che diventa ogni giorno di più un vero paradosso vivente. Il paradosso di una principessa del popolo.

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