America

USA 2016, il primo faccia a faccia tra i candidati democrat

18 Luglio 2015

Ieri sera, in occasione della “Iowa Democratic Party Hall of Fame celebration dinner”, si è tenuto il primo faccia a faccia tra i candidati alla corsa per la nomination democratica del 2016. Non si è trattato di un vero e proprio dibattito elettorale ma di un evento, cui hanno preso parte circa milleduecento attivisti, in preparazione del prossimo caucus. Un evento, in cui i vari candidati hanno a turno preso la parola, esponendo i loro programmi e commentando le urgenze politiche più scottanti. Una sorta di vetrina, se vogliamo, in cui non si sono verificati scontri e attacchi reciproci: una vetrina che però ha comunque plasticamente evidenziato gli attuali rapporti di forza interni all’Asinello (soprattutto in termini di raccolta-fondi).

I riflettori della serata – neanche a dirlo – sono stati puntati sui due principali contendenti: da una parte la front runner, Hillary Rodham Clinton, che i sondaggi democrat danno intorno al 65% e piazzata al primo posto per finanziamenti. Dall’altra, il socialista indipendente, Bernie Sanders, collocato al secondo posto e al momento imbattibile nella raccolta-fondi da parte degli small donors. E difatti, le maggiori ovazioni dal pubblico sono state per loro.

Nei suoi interventi, la Clinton ha mantenuto posizioni decisamente di sinistra (complice – forse – anche il fatto che proprio ieri Elizabeth Warren l’abbia velatamente criticata alla Netroots Nation Convention): ha ricordato le battaglie democratiche, recentemente  vinte anche grazie alle sentenze della Corte  Suprema, prima tra tutte, quella sul same sex marriage; ha ribadito le sue tesi programmatiche sul tema del lavoro e dei diritti femminili; ha poi duramente attaccato la pletora dei candidati repubblicani (da Bush a Walker) e – in particolare – il loro “nuovo front runner”, Donald Trump.

Hillary ha dapprima sarcasticamente affermato come finalmente ci sia un candidato i cui capelli attirino più attenzione dei suoi (maligno riferimento al neppure tanto presunto parrucchino del miliardario, da parte di una candidata che – sul suo profilo Twitter – si definisce “hair icon”). Poi, è passata all’attacco, asserendo come le posizioni oltranziste di Trump in tema di immigrazione non siano accettabili. E come sostanzialmente il radicalismo starebbe pervadendo l’intero Partito Repubblicano. Qualcuno magari dovrebbe però ricordarle come in passato il magnate l’abbia ampiamente finanziata, soprattutto durante i suoi anni di mandato senatoriale nel New York.

Sanders ha posto, dal canto suo, l’accento sulla necessità di una “political revolution”, imbracciando tematiche particolarmente care all’elettorato di Elizabeth Warren: dalla critica verso Wall Street e le disuguaglianze sociali a posizioni profondamente aperturiste in materia di immigrazione (con espliciti riferimenti all’universo ispanico).

Ha cercato di scalfire poi il duopolio Clinton-Sanders il terzo candidato nei sondaggi, Martin O’Malley, il quale ha ricordato come  – al di là delle  belle parole che tutti hanno speso sul same sex marriage – lui sia stato l’unico, tra i presenti, ad aver realizzato fatti concreti: da governatore del Maryland lo legalizzò difatti nel 2012 (quando ancora Hillary si poneva invece su posizioni molto più timide e caute). E per questo O’Malley è  riuscito a strappare un lungo applauso alla platea, evidenziando dunque come qualche chance per restare in corsa sembrerebbe ancora averla.

Magra performance per gli ultimi due contender. L’ex governatore del Rhode Island, Lincoln Chafee, si è astrattamente appellato al suo coraggio e alla sua onestà: forse per far dimenticare una carriere politica da banderuola centrista, che con molta nonchalance è passata dal campo repubblicano a quello democratico, praticamente scontentando tutti.

L’ex senatore della Virginia, Jim Webb, ha invece posto l’accento sulle tematiche di foreign policy. Forte della propria esperienza come Segretario alla Marina negli anni ’80 e membro della Commissione Esteri al Congresso, Webb a rinnovato le sue riserve verso il nuclear deal, appena siglato da Obama con l’Iran: esprimendo così un malumore serpeggiante in diversi circoli di area democratica. Ha rispolverato inoltre il  suo vecchio cavallo di battaglia sulla propria contrarietà all’invasione dell’Iraq: un argomento che – c’è da giurarci – Webb citerà spesso nel corso di questa campagna elettorale: non foss’altro per ricordare a Hillary l’appoggio parlamentare che da senatrice diede ai piani di George Walker Bush.

L’evento di ieri ha dunque mostrato alcuni elementi di notevole interesse, che evidenziano i punti di forza (ma anche le debolezze) dell’Asinello.

In primo luogo, si è difatti notato un partito relativamente compatto: un partito ordinato, con pochi candidati alla nomination. Un partito in cui il dibattito interno verte su scelte programmatiche non radicalmente alternative e dunque non oltremodo divisive (laddove, nel GOP, è attualmente in atto una violentissima e caotica guerra fratricida).

Sennonché, dall’altra parte, si è assistito ad un partito fortemente spostato a sinistra e intento a rincorrere il voto delle frange elettorali più radicali: i tre principali competitor si rivolgono difatti primariamente al mondo anti-Wall Street e ultra-liberal, tentando ciascuno di accreditarsi come il candidato più vicino al popolo e alle sue esigenze. Una collettiva virata a sinistra dunque che probabilmente lascerà scontento l’elettorato dem moderato, il quale ha sempre invece mostrato buoni rapporti tanto con la finanza quanto con Israele.

Infine, un ulteriore elemento di sconcerto risiede nella pressoché totale assenza di un vero dibattito sulla politica estera. Fatta eccezione per Jim Webb (che comunque si è limitato a ribadire posizioni sostenute da tempo) e qualche altro fugace riferimento, nessuno dei candidati è apparso preparato (o quantomeno interessato) ai temi di foreign policy. Nessuno sembra al momento avere una strategia organica e un quadro preciso sulle questioni geopolitiche che stanno attualmente sconvolgendo il globo, dalla Russia allo Stato Islamico. Questioni che difatti i principali candidati repubblicani (a partire da Jeb Bush) stanno sempre più mettendo al centro delle proprie proposte programmatiche.

E’ in questo clima di incertezza che l’Asinello si prepara alla corsa presidenziale. Il punto è che – se vuole riuscire nell’impresa – deve capire dove convergere. Perché se la destra conservatrice da anni ormai tiene in ostaggio il GOP (condannandolo sempre più all’irrilevanza), i dem rischiano specularmente oggi di immergersi nel populismo di sinistra: un populismo gravido di settarismi, assolutamente perniciosi in termini di general election.

Perché in definitiva il problema principale è uno soltanto: capire se la coscienza critica, incarnata da Elizabeth Warren, sia effettivamente una risorsa. Oppure un’elegante e intellettuale via, per andarsi a schiantare.

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