America
USA 2016, il dibattito repubblicano alla Reagan Library
Si è concluso da poche ore il secondo dibattito tra i candidati alla nomination repubblicana, organizzato dalla CNN presso la Reagan Library (in California). Un dibattito convulso, sanguigno, feroce e nervoso: un dibattito non particolarmente innovativo sul piano dei contenuti programmatici ma che ha fotografato una situazione non poco complessa all’interno dell’Elefantino.
Innanzitutto, come prevedibile, questo confronto ha evidenziato una spaccatura profonda tra l’ala istituzionale e quella antipolitica (energicamente rappresentata da Trump, Carson e Carly Fiorina). Una compagine, quest’ultima, tuttavia intensamente disomogenea: a fronte delle numerose convergenze tra Trump e Carson (d’accordo quasi su tutto, eccetto che su alcuni ambiti come quello fiscale), evidentissimo è risultato invece l’astio tra Carly Fiorina e il biondo magnate. Non solo i due si sono pizzicati per tutto il dibattito ma sono anche arrivati a picchi altissimi di tensione, rinfacciandosi i reciproci fallimenti professionali, per arrivare infine agli attacchi sull’aspetto fisico.
L’ala istituzionale è di contro apparsa più compatta, rispetto al dibattito di Cleveland: diversi candidati hanno infatti giocato di sponda, proprio per bersagliare efficacemente i rivali populisti: soprattutto all’inizio, Bush e Walker hanno mostrato i segni di una convergenza contro Trump, mentre Mike Huckabee è apparso piuttosto morbido verso Jeb. Una compattezza tuttavia non certo scevra da contrasti e divisioni: in particolare Ted Cruz (come suo solito) ha abbondantemente flirtato con l’ala antipolitica, e soprattutto con Trump, quando ha affermato di essere “lieto” della presenza del miliardario nella corsa elettorale, perché grazie a lui si potrebbe finalmente parlare in maniera chiara sul problema dell’immigrazione clandestina. Una convergenza – quella tra Ted e Donald – non certo nuova ma che – anzi – si inserisce in una scia di complimenti reciproci che dura ormai da due mesi. Cosa che fa sempre più seriamente pensare a una possibile alleanza tra i due (che potrebbe preludere anche a un ticket presidenziale).
Sennonché, al di là di queste considerazioni più generali, vale forse la pena di dare una breve occhiata ai singoli candidati e alle loro performance.
Innanzitutto Trump. Come sempre abilissimo animale da palcoscenico, ancora una volta si è mostrato scorretto, beffardo, demagogico e dalla battuta pronta. Ancora una volta ha evidenziato una decisa schiettezza, lontana da ogni artificiosità: in particolare, nella maggior parte dei siparietti polemici intrattenuti con Bush, è apparso più incisivo ed efficace del suo avversario. Eppure, nel corso di questo dibattito, qualche problema lo ha avuto. In primo luogo, rispetto a Cleveland, stavolta ha dovuto fare i conti con un pubblico indubbiamente più ostile e non certo ben disposto verso le sue consuete sparate. In secondo luogo, ha dovuto giocare maggiormente sulla difensiva, per proteggersi dai numerosi attacchi dei nemici. Inoltre, è apparso alquanto nervoso e ha mostrato i primi evidenti segni di cedimento non solo sull’effettiva realizzazione delle proprie proposte programmatiche (in particolare sulla deportazione di 11 milioni di persone) ma anche – e soprattutto – sulla sua reale preparazione in tema di politica estera.
Poi c’è stato Jeb Bush. Visto il grigiore mostrato a Cleveland e il crollo registrato nei sondaggi dell’ultimo mese, tutti hanno guardato alla sua performance per sondarne la capacità di ripresa. Il risultato è stato ambivalente. Nelle prime due ore di dibattito ha cercato di alzare il tiro, polemizzando aspramente con Trump (gli ha rimproverato le sue antiche simpatie per i democratici e il fatto che avrebbe cercato di “comprarlo” ai tempi del suo incarico governatoriale in Florida).
Sennonché il magnate ha sempre risposto per le rime, mettendolo alle strette: Jeb è apparso difatti nuovamente debole, troppo “professorale” e sostanzialmente incapace di rispondere efficacemente. Anche quando Trump lo ha accusato di essere un burattino delle lobby e finanche di sua moglie (sul tema dell’immigrazione), le repliche di Jeb sono state puntuali ma non hanno sfondato in termini di comunicazione. Nell’ultima ora – maggiormente dedicata alla foreign policy – tuttavia si è un po’ ripreso: il guizzo migliore che ha avuto è stato quando ha difeso il fratello, davanti a Trump che lo ha attaccato per la guerra in Iraq e per avere – a suo dire – spianato la strada alla vittoria di Obama. Jeb ha finalmente risposto di pancia, abbandonando la sua artificiosità e ricordando energicamente che ai tempi della presidenza di George Walker l’America fosse una nazione più potente e più sicura.
Eccellente la performance di Marco Rubio. Partito in sordina, soprattutto nella prima parte, non ha voluto strafare, limitandosi ad interventi brevi, mirati e precisi: interventi che hanno mostrato efficacia oratoria e competenza sulle tematiche affrontate. Decisamente in grande spolvero poi sulla politica estera, suo vero cavallo di battaglia. Non soltanto ha ribadito le proprie posizioni di falco su Cina e Iran ma è stato anche l’unico candidato (insieme forse a Carly Fiorina) a dare effettivamente del filo da torcere a Trump, pur senza mai scendere in rissa con lui: ha ricordato la sua sostanziale ignoranza in materia di foreign policy, invitando ironicamente i giornalisti a fargli delle domande specifiche sul tema. Inoltre, mentre sul problema dell’immigrazione Bush ha impostato tutto sulla difensiva, Rubio ha preferito giocare d’attacco: davanti alle posizioni radicali di Trump ha ribadito orgogliosamente le proprie origini cubane, sottolineando il valore economico e morale dell’immigrazione legale. Con questo dibattito, il giovane senatore della Florida aggiunge un ulteriore tassello ad una campagna efficace, che lo sta facendo gradualmente emergere come candidato credibile e capace di coniugare innovazione e competenza.
Scomparso ormai dai radar Scott Walker. All’inizio si è messo a polemizzare con Trump, ribadendo – come al solito – la sua bravura da governatore del Wisconsin: sennonché, davanti agli attacchi del magnate sul deficit, non è apparso particolarmente a suo agio. Ancora oggi, sembra non aver capito che dovrebbe cercare di introdurre elementi di innovazione (comunicativa e programmatica), invece di ripetere sempre le stesse cose ormai trite e ritrite o di caricare post su Facebook mentre fa jogging, per darsi l’aria da macho.
Niente di nuovo poi sul fronte Rand Paul. Ha impersonato come di consueto la figura del libertarian dalle tendenze isolazioniste. Non sono mancati i soliti siparietti polemici (ancora una volta con Trump) ma niente di veramente memorabile. Come d’altronde l’ala centrista di Christie e Kasich: non ha sfigurato ma non si è particolarmente contraddistinta. Soprattutto il governatore dell’Ohio ha avuto modo di polemizzare a più riprese con Cruz sull’Iran e i temi etici.
Occhio ai sondaggi dei prossimi giorni, quindi. Dopo questo confronto, è possibile che Rubio e Carly Fiorina spicchino il volo. Un’incognita invece tanto Trump quanto Bush. Certo è che nella corsa repubblicana l’aria si fa sempre più bellicosa. E – c’è da giurarci – le nuove vittime non tarderanno ad arrivare.
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