America

USA 2016, il dibattito democratico a Las Vegas

14 Ottobre 2015

Noiosetto. Banale. Sonnacchioso. Il primo dibattito televisivo tra i candidati alla nomination democratica, organizzato dalla CNN a Las Vegas, non ha decisamente brillato per originalità o effervescenza. Un evento molto ingessato, con pochi guizzi, domande abbastanza scialbe e dei partecipanti non esattamente briosi. Niente a che vedere – insomma – con le spettacolari bastonate dei dibattiti repubblicani di Cleveland e della Reagan Library: rissosi, venefici e virili. Talvolta anche grotteschi, per carità. Ma di certo più interessanti, veri e coinvolgenti.

Quasi ovunque oggi si legge della “straordinaria” vittoria di Hillary Clinton, che avrebbe sbaragliato gli avversari, imponendosi come la vera (e unica) candidata alla presidenza degli Stati Uniti: una versione, che spopola tra i media e che lo stesso marito, Bill, non ha mancato di enfatizzare attraverso Twitter. Una versione indubbiamente fondata. Che Hillary si uscita vincente dal dibattito di ieri è difatti fuori discussione. Anche perché, vista l’offerta sulla piazza, se l’ex first lady non fosse stata in grado di imporsi, avrebbe meritato il Nobel all’incapacità.

D’altronde, non ci vuole poi tanto ad emergere su tre nullità colossali come si sono rivelati (non certo inaspettatamente) Jim Webb, Lincoln Chafee e Martin O’Malley. Tre manichini spenti, ingabbiati in ruoli preconfezionati, dalle idee pallide e senza un briciolo di verve. Tre macchiette, messe lì per dare una parvenza di democrazia ad una corsa elettorale – quella interna all’Asinello – che somiglia sempre più a un’incoronazione dinastica.

Hillary ha dunque avuto buon gioco non solo nel glissare le (poche) trappole disseminate dai giornalisti. Ma anche davanti alle accuse mossele contro dai competitor è riuscita decisamente a farla franca, senza il minimo sforzo. Per esempio, quando Chafee (da sempre strenuo oppositore della guerra in Iraq e per questo nemico sanguinario di George Walker Bush) l’ha attaccata, ricordandole il suo appoggio da senatrice all’invasione irachena, l’ex first lady si è rifiutata di rispondergli, prendendosi anche l’applauso del pubblico. E Chafee, invece di insistere, se l’è cavata con un sorrisino inebetito, tenendosi la bastonata sui denti.

Del resto, non si è trattato dell’unico momento in cui sono state rinfacciate a Hillary le sue ormai proverbiali giravolte programmatiche. Ma in tutte le occasioni l’ex first lady è riuscita a venirne fuori. Ha detto di non essere certo l’unica su quel palco ad aver cambiato delle posizioni politiche, che – quando lo ha fatto – non è stato per opportunismo ma per nuove informazioni acquisite. Il trionfo dell’equilibrismo, poi, è stato quando il giornalista le ha fatto notare come – nello spazio di poche settimane – in due comizi diversi quest’estate si sia prima definita “progressista” e poi “centrista”: lei ha replicato di essere una progressista “who likes to get things done”. Roba da Democrazia Cristiana.

L’altra star della serata è stato il vecchio Bernie Sanders. Senza dubbio abile oratore ma –in fin dei conti – troppo calato nel personaggio, a tratti quasi fasullo, nella sua enfasi eccessivamente caricata. Come da copione, ha recitato la parte del socialista orgoglioso che lotta contro le disuguaglianze sociali e i privilegi dell’alta finanza. Ha attaccato direttamente la Clinton per i suoi rapporti con Wall Street, prendendosi però la morsicata dell’ex first lady, la quale ha sottolineato come l’America non possa permettersi di gettare alle ortiche il capitalismo.

Un momento di difficoltà Bernie lo ha avuto poi sul gun control, la cui posizione ambigua (e tendenzialmente favorevole al libero possesso d’armi) potrebbe rivelarglisi nociva, vista la sensibilità dell’elettorato liberal sull’argomento. Singolare, poi, l’assist dell’arzillo socialista a Hillary, quando ha sostenuto che gli elettori non sarebbero per nulla interessati alla questione delle sue “dannate email”. Al che la Clinton ha espresso un ringraziamento, accompagnato dalla sua storica e agghiacciante risata.

Hillary, col suo abitino dimesso da donna del popolo, se ne esce senza un graffio, nel trionfo degli applausi. E questo non perché abbia sostenuto qualcosa di nuovo in termini programmatici né perché sia stata in grado di sciogliere i nodi su almeno qualcuna delle controversie che la inseguono da tempo (dalla fondazione di famiglia all’Emailgate): ha vinto perché sola. Ha vinto perché priva di un autentico avversario. Ha vinto perché nessuno in questo dibattito – dalla stampa ai rivali – si è permesso di pestarle veramente i piedi, insistendo e mettendola alle strette.

Non sappiamo se Joe Biden si candiderà e se – come sostengono diversi analisti – la vittoria di Hillary nel dibattito di ieri lo dissuaderà a scendere in campo contro di lei. Certo è che la Clinton ha ottime chances di conquistare la nomination democratica, anche perché – per quanto forte – è abbastanza scontato che in America non riuscirà mai a imporsi un candidato che si definisce “socialista”. Eppure, se fossimo in Hillary, non riusciremmo comunque a dormire sonni tranquilli. Vincere la nomination senza rivali seri è facile: soprattutto per una persona abituata alle investiture regali ( anche nel 2008, d’altronde, credeva le spettasse la nomination per diritto ereditario, salvo poi doversi battere, perdendo, contro Barack Obama).

Siamo veramente sicuri che sfuggire alla dura legge della dialettica politica si rivelerà un fattore positivo? E che non produrrà invece un candidato a tavolino? Pronto a crollare al primo scontro reale in sede di general election?

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