America
USA 2016, i neocon alla riscossa
Uno spettro si aggira per l’America: lo spettro del neoconservatorismo. La corsa elettorale per la conquista della nomination repubblicana sta difatti evidenziando il riemergere di frange vicine a questo movimento: una galassia che sembra risvegliarsi, pronta a riprendere il controllo dell’Elefantino.
Entrato in crisi nel 2006, a seguito della contestata guerra irachena, la popolarità del neoconservatorismo crollò decisamente negli anni seguenti, schiacciata non soltanto dalle critiche del fronte democratico ma anche da polemiche sorte in seno allo stesso GOP. Un GOP che vide non a caso sempre più marginalizzata l’area neocon, a vantaggio di altre correnti, soprattutto radicali. E d’altronde, non dimentichiamo che le primissime avvisaglie della nascita del Tea Party sono rintracciabili già nel 2007, nella contestazione libertaria alle politiche stataliste di George Walker Bush. Ma la crisi del neoconservatorismo si è rivelata plasticamente anche nel corso delle ultime due primarie repubblicane.
Nel 2008, i candidati che si imposero nella lotta per la nomination non avevano nulla a che fare con il neoconservatorismo: il governatore dell’Arkansas, Mike Huckabee, si presentava come esponente di quella religious right che storicamente non ha mai mostrato un’eccessiva simpatia per i neocon (Bush padre, per cercare di accattivarsene gli appoggi, si alienò il voto moderato nel ’92; mentre suo figlio fu costretto a governare tra complicatissimi equilibrismi per cercare di accontentarla sulle questioni etiche). Poi, c’era Mitt Romney, che con il suo programma economico radicalmente liberista, certamente non poteva dirsi in linea con l’idea di welfare state particolarmente cara al compassionate conservatism dei Bush. Infine, John McCain: il senatore dell’Arizona si distinse per una dura avversione nei confronti di vari esponenti dell’amministrazione Bush, in particolare Dick Cheney e Donald Rumsfeld, soprattutto sulla questione irachena.
E le cose non cambiarono quattro anni dopo. Anche nel 2012 il fronte neocon non fu rappresentato nella corsa alla nomination: al di là del suddetto Romney, emersero difatti Rick Santorum (altro candidato della religious right) e Ron Paul (libertarian, radicalmente avverso alla politica estera e all’interventismo economico, tipici del neoconservatorismo).
Certo: è pur vero che nel 2008 circolò la voce di una possibile candidatura dell’ex segretario di Stato, Condoleezza Rice, a vicepresidente. E che la stessa Rice tenne un vigoroso (e applauditissimo) discorso in occasione della convention di Tampa nel 2012. Ma si trattò in definitiva di apparizioni sparute, cui non fece seguito nulla di effettivamente concreto. Sul neoconservatorismo continuava a pendere il marchio dell’infamia: l’ideologia oscura, guerrafondaia e assetata di potere. Roba da Darth Fener, per intenderci.
Sennonché, dopo otto anni di silenzio, qualcosa sta cambiando. I neocon sembrano essere usciti dal letargo e preparare un ritorno. In grande stile. Le prime avvisaglie di questo comeback non sono del resto recentissime. E risultano associabili a un nome ben preciso: quello di Jeb Bush. Della possibile discesa in campo dell’ex governatore della Florida si parlava già dall’inizio del 2013. E per quanto l’automatismo che vedrebbe inesorabilmente legati i Bush all’ideologia neocon non sia del tutto esatto (Bush padre ebbe difatti diversi attriti con i neoconservatori, che lo criticarono per la mancata invasione irachena), pare proprio che Jeb non voglia discostarsi molto da questa prospettiva: non soltanto in materia economica (essendo favorevole a misure sociali che tutelino i principi welfare state) ma soprattutto in politica estera. E questo non solo per il proprio programma, sulla carta almeno profondamente vigoroso, interventista e aspramente critico della leadership from behind obamiana. Ma anche per le persone di cui si sta attorniando.
Già nel giugno 2014, Condoleezza Rice rilasciò un’intervista, in cui dichiarò che avrebbe considerato Jeb un ottimo presidente. Ma – soprattutto – lo scorso febbraio, l’ex governatore della Florida ha nominato quali consiglieri in politica estera figure come quella di John Negroponte (vicesegretario di Stato durante il secondo mandato di George Walker Bush) e dello straussiano Paul Wolfowitz (vicesegretario alla Difesa durante il primo mandato di Bush figlio ed ex presidente della Banca Mondiale): entrambi uomini di comprovata fede neocon e attivi sulla scena politica dai tempi dell’amministrazione Reagan.
Ma Jeb Bush non è solo all’interno dell’attuale corsa per la nomination repubblicana. Un’altra figura appare difatti particolarmente vicina all’universo neoconservatore: quella di Marco Rubio. Innanzitutto attraverso le sue proposte programmatiche: ha scelto come slogan della propria campagna la locuzione “New American Century”, notoriamente cara alla dottrina neocon, da sempre fautrice di una rinascita dell’eccezionalismo americano, soprattutto in foreign policy (e difatti Rubio tende a congiungere una forte attenzione verso le misure sociali a una politica estera di potenza).
Inoltre, anche il giovane senatore non è estraneo ai circoli intellettuali e politici del neoconservatorismo. Non dimentichiamo in primo luogo che – durante la sua esperienza alla Camera della Florida – è stato il pupillo di Jeb Bush. Ma soprattutto che dal 2011 al 2014 scelse come capo del suo staff, Cesar Conda, strettissimo collaboratore di Dick Cheney, durante il periodo della vicepresidenza agli Stati Uniti. Quello stesso Cheney che – dopo anni di silenzio – proprio poche settimane fa è tornato con la pubblicazione del suo nuovo libro, “Exceptional”: una feroce critica all’appeasement obamiano.
Tutto questo mostra allora una particolare effervescenza in seno alla galassia neoconservatrice. E come quest’ultima sia dunque fortemente intenzionata a riprendersi il potere. Il punto è quindi capire se sia effettivamente in grado di farcela: sia in termini di nomination che di general election.
Innanzitutto la nomination. Il Partito Repubblicano è attualmente dilaniato da uno scontro tra establishment e area radicale, chiaramente esemplificato dalla recenti dimissioni dello Speaker della Camera, John Boehner. Sennonché, questi due mondi antitetici risultano a loro volta internamente frammentati. La corrente radicale si articola difatti in varie fazioni, che vanno dalla religious right al Tea Party. E in seno a queste stesse fazioni si registrano ulteriori spaccature. Prendiamo il Tea Party: diviso tra un’anima libertaria (che segue Rand Paul) e una populista (affascinata da Trump). E la medesima destra religiosa appare come un nugolo di contrasti.
Dal canto suo, anche l’establishment ha le sue divisioni interne: si va dai maverick come John McCain, ai liberisti ortodossi come Mitt Romney, passando per i conservatori moderati alla McConnell. E poi ci sono i neocon: l’unica corrente in seno al GOP che – allo stato attuale – appare ideologicamente organizzata: l’unica corrente che – nonostante differenze e tensioni interne – sembra (al di là delle valutazioni di merito) presentare ad oggi un programma quantomeno coerente dinanzi al marasma ideologico e organizzativo disseminato nell’Elefantino. Un indubbio punto di forza, che – pur davanti alle forti critiche da parte delle compagini radicali – potrebbe aiutarla a riprendere il controllo del partito. Il punto sarà capire su quale candidato i neocon preferiranno scommettere: se sul potente Bush o sul giovane Rubio, nella consapevolezza che – almeno in questo momento – Rubio per la sua efficace narrazione, potrebbe essere in grado di sedurre anche parti dell’elettorato radicale.
Infine la general election. Può oggi un neocon sperare concretamente di arrivare alla Casa Bianca? Dipende. Storicamente l’ideologia neoconservatrice, per quanto manifestante una sua coerenza, non si è mai presentata come un monolite dogmatico: lo stesso Irving Kristol amava definire il neoconservatorismo come una “persuasion”: un orientamento, un modo di agire, una suggestione. Un qualcosa di non meglio definito che sta poi al singolo politico dover concretare nella viva carne della Storia. Quindi, innanzitutto, bisognerà prestare attenzione a quale candidato risulterà maggiormente efficace in termini di immagine e comunicazione. E comunque, tornando al dato ideologico, paradossalmente oggi, dopo Obama, il neoconservatorismo potrebbe avere molte più chances di vittoria rispetto agli anni passati. E questo sotto un duplice aspetto: economico e di politica estera.
Nel 2012, la sconfitta di Mitt Romney ha evidenziato l’attuale rifiuto da parte dell’elettorato americano di strategie economiche improntate all’ultraliberismo. Uno schiaffo all’ortodossia economica reaganiana che potrebbe avvantaggiare i neocon, da sempre fautori di politiche sociali e di misure tendenti allo statalismo.
Infine, la politica estera. Bisognerà capire se l’elettorato statunitense continuerà ad apprezzare la distensione obamiana (soprattutto verso Iran e Cuba) o se preferirà orientarsi maggiormente verso una prospettiva interventista e improntata all’unilateralismo. Non sarà d’altronde un caso che sia Bush sia Rubio puntino oggi molto sulle questioni di foreign policy, nella loro critica all’amministrazione democratica.
Occhio quindi alle sorprese. L’impero sembrava morto e invece ha tutta l’intenzione di colpire ancora. E difatti dalle parti del GOP inizia a sentirsi distintamente un grido: neocon di tutto il mondo, unitevi!
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