America

USA 2016, Hillary Clinton testimonierà sull’Emailgate

26 Luglio 2015

L’emailgate non sembra destinato a placarsi. Sabato scorso, lo staff di Hillary Clinton ha finalmente dichiarato che l’ex first lady avrebbe accettato di testimoniare davanti alla Commissione Bengasi alla Camera. Una decisione che – secondo il New York Times – sarebbe stata presa già venerdì, in seguito alla notizia secondo cui due ispettori del Dipartimento di Giustizia avrebbero trovato delle informazioni “classificate” (cioè di interesse nazionale) nel suo account mail privato. Informazioni che – hanno fatto notare gli ispettori – avrebbero dovuto essere veicolate attraverso i sistemi governativi.

La data uscita per la testimonianza è quella del 22 ottobre. Sennonché pare che un accordo non sia stato ancora raggiunto. Sabato mattina, il portavoce di Hillary, Nick Merril, ha ripetuto che le procedure sono state sempre rispettate dall’ex segretario di Stato e che ci sarebbe comunque la volontà di garantire la massima trasparenza. Un invito alla distensione, dunque, quasi che la Clinton non aspetti altro, che essere ascoltata per provare finalmente la propria correttezza, al di là di ogni ragionevole dubbio.

Sennonché l’irenismo è naufragato subito. Dopo un paio d’ore, la Commissione Bengasi ha rilasciato una dichiarazione, in cui si diceva che l’avvocato di Hillary, David Kendall, avrebbe posto due condizioni imprescindibili per la testimonianza: che non si cambi la data dell’audizione, una volta fissata; e che le domande siano circoscritte agli episodi di Bengasi (dove – ricordiamolo – l’11 settembre del 2012 ebbe luogo un attacco terroristico in cui persero la vita vari cittadini americani, tra cui l’ambasciatore Chris Stevens).

Il capo della Commissione, il repubblicano Trey Godwy, non sembrerebbe particolarmente propenso ad accettare quelli che vengono giudicati come due diktat. In particolar modo – questo è il suo ragionamento – non sarebbe possibile fissare una data definitiva, in quanto i membri della Commissione sarebbero ancora in attesa di ricevere numerosi documenti, che dovrebbero essere poi studiati con attenzione.

I democratici, dal canto loro, attaccano Godwy, asserendo che la sua vera intenzione sia quella di tirare la faccenda per le lunghe, con l’intento di strumentalizzare politicamente la vicenda: ordire uno stillicidio infinito che mini la campagna elettorale dell’attuale front runner democratica. Un’accusa – questa – che gli viene mossa da anni.

In secondo luogo, è assai probabile che Godwy non sia ben disposto neppure verso la secondo richiesta del legale di Hillary: la netta circoscrizione delle domande. Come difatti riporta oggi Politico, l’ex first lady potrebbe temere un allargamento dell’inchiesta alla Clinton Foundation: quella stessa fondazione che – già durante i suoi anni da segretario di Stato – raccoglieva allegramente finanziamenti da stati come l’Arabia o il Qatar: un conflitto di interessi cui il cortocircuito dell’emailgate è difficile possa risultare realmente estraneo.

Infine, un ulteriore elemento di trattativa pare sarà la natura dell’audizione: non è ancora stato definito infatti se sarà pubblica (come – sembra – abbia richiesto la Clinton) o a porte chiuse. Il marasma è tanto. E promette di esplodere come un ordigno in seno alla corsa presidenziale del 2016. Tutto adesso si gioca sulla strategia difensiva di Hillary: una strategia che finora si è dimostrata assolutamente fallimentare, in quanto farcita di reticenze e omissioni. Vedremo presto se sarà capace di tornare in sella: proprio come fece il suo predecessore come segretario di Stato, Condoleezza Rice ( quella Condoleezza Rice che – per inciso – durante  il suo mandato ha sempre usato un account mail governativo).

Nei primi mesi del 2004 difatti, la “Commissione parlamentare sull’11 settembre” chiese insistentemente che la Rice – allora National Security Advisor – testimoniasse sull’attentato e la lotta al terrore. Il fine della Commissione era quello di dimostrare come, dal suo insediamento, l’amministrazione di George Walker Bush non avesse fatto abbastanza per prevenire un simile attacco. Il presidente era contrario all’audizione, anche perché la  Rice avrebbe dovuto testimoniare sotto giuramento, rischiando così di rivelare informazioni di sicurezza nazionale. Anche a causa del battage mediatico che venne a crearsi, la Rice alla fine accettò senza  troppe manfrine di essere interrogata e si presentò alla Commissione. L’interrogatorio durò circa tre ore. E la Rice rispose punto su punto ad ogni domanda con chiarezza e dovizia di particolari. Con fermezza, calma e una punta di ironia. Risultato: dopo tre ore la Commissione non aveva più una freccia al suo arco.

Tutto questo per sottolineare soltanto un fatto: al di là di come la si possa pensare in termini di schieramento e di princìpi ideologici, spesso la politica – come la vita –  è una questione di stile. Oltre che di attributi.

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