America

USA 2016, la candidata Hillary svolta bruscamente a sinistra

14 Giugno 2015

Il discorso elettorale tenuto ieri a Roosevelt Island (New York) da Hillary Rodham Clinton ha chiaramente sancito una netta virata a sinistra del suo programma politico. Avvisaglie di una simile strategia emergevano d’altronde già da più di un mese: portandosi dietro il problema di incarnare quell’élite economico-politica statunitense (oggi invisa a larga parte dell’elettorato democratico), la Clinton ha cercato a più riprese di interpretare un’immagine popolare e di sinistra, che le permettesse di abbattere quella barriera di diffidenza e antipatia che la separa oggi da ampie quote della base democrat (come d’altronde testimoniato da alcuni recenti sondaggi, particolarmente inclementi nei suoi confronti).

Ieri, a Roosevelt Island, questa strategia si è alfine concretata in un energico discorso, pronunciato davanti a un pubblico osannante: una sorta di seconda discesa in campo che de facto  stabilisce l’inizio della campagna elettorale per le elezioni del 2016. Un discorso articolato, dal tono smaccatamente presidenziale, che ha guardato direttamente al di là delle primarie: un discorso essenzialmente già lanciato verso la corsa alla Casa Bianca, che ha trovato – non a caso – il suo bersaglio nella pletora dei rivali repubblicani (Bush e Rubio in testa) e non nei per ora pochi avversari di partito.

Tradizionalmente rappresentante della compagine moderata dell’Asinello, la Clinton ha compreso come l’insofferenza riservatale dall’ala liberal possa esserle fatale. In tal senso il discorso tenuto ieri è stato ampiamente caratterizzato da tematiche e toni che riecheggiano non a caso quelli di Elizabeth Warren. Un discorso che mira quindi non soltanto ad un ampliamento della propria base elettorale ma che cerca di arginare potenziali (e assai probabili) attacchi da sinistra: per esempio da parte del governatore del Maryland di area liberal, Martin O’Malley, recentemente candidatosi per la nomination democratica proprio in funzione anti-Hillary.

Sennonché, al netto di una discreta efficacia comunicativa, una cosa bisogna pur dirla: complice magari anche il fatto di un tale spostamento ideologico-politico a sinistra, questo discorso sotto molti aspetti si configura come un coacervo di non trascurabili contraddizioni (e reticenze) che forse val la pena di sottolineare.

Innanzitutto abbiamo la questione finanziaria. In un passaggio importante del comizio, la Clinton ha vigorosamente affermato di voler essere il presidente di tutti e di voler diffondere benessere e prosperità a tutta la società americana: non soltanto a pochi ottimati, appartenenti ai vertici delle strutture economiche e finanziarie del Paese. Dichiarazione di per sé coraggiosa, anche qui incarnante la vivida retorica anti-Wall Street della Warren. Peccato però per il paradosso evidente di una signora che con quel mondo – quello della tecnocrazia finanziaria – è sempre andata a braccetto, tanto da ricevere un endorsement un paio di mesi fa proprio dai vertici di Goldman Sachs.

Ma sul fronte economico la situazione non migliora. Considerato il luogo dove ha pronunciato il discorso, Hillary non ha certo potuto esimersi da costanti riferimenti alla figura storica di F.D. Roosevelt, colui che fu in grado di rifondare e sostanzialmente rilanciare un Partito Democratico in profondissima crisi dai tempi di Wilson. In questo senso, l’esaltazione del New Deal rooseveltiano era d’obbligo. Meno d’obbligo forse era invece lasciare intendere di voler seguire una strada simile in caso di conquista dello scranno presidenziale, vista l’abbondanza di riferimenti che Mrs. Clinton ha dichiarato di avere nella sua missione politica, avendo esplicitamente citato Barack Obama e – ovviamente – il marito Bill.

Tre numi tutelari quindi che tuttavia non sembrano armonizzarsi particolarmente tra loro. Eh sì, perché una domanda sorge inevitabile. Come diavolo è possibile mettere coerentemente assieme Obama, Bill Clinton e Roosevelt? Tutti e tre democratici e innovatori, si direbbe. Ebbene, la questione è vagamente più complessa. Il New Deal di Roosevelt era difatti un piano di intervento statale  finalizzato a profonde riforme sociali, nella fattispecie il controllo sugli enti finanziari e la tutela dei sindacati: l’esatto contrario della politica economica ultraliberista che aveva caratterizzato le amministrazioni repubblicane degli anni Venti (da Harding a Hoover).

Ebbene, che cosa c’entra il New Deal rooseveltiano con la politica economica di Bill Clinton, quella politica detta non a caso della “Third Way”, particolarmente invisa alla sinistra democrat e ai sindacati, in quanto tacciata di essere una sorta di liberismo mascherato? Una politica economica che portò difatti Clinton verso una deregulation economico-finanziaria da molti considerata tra le principali cause della crisi del 2007? E che lo condusse inoltre a sostenere il “North American Free Trade Agreement”, il trattato di libero scambio tra Stati Uniti, Messico e Canada? Un accordo che suscitò  le dure proteste tanto dei liberal quanto dei sindacati, preoccupati per la diminuzione dei posti di lavoro e per il taglio degli stipendi.

Una situazione d’altronde molto simile a quella che in questi giorni sta vivendo il presidente liberal Barack Obama nel sempre più difficile tentativo di far approvare il TPP: un tentativo che pare diretto verso il naufragio, vista – anche qui – non solo l’opposizione del fronte sindacale ma anche – e soprattutto – lo schiaffo ricevuto venerdì scorso dai democratici (Nancy Pelosi in testa), che gli hanno letteralmente affossato il provvedimento al Congresso.

Ma oltre le contraddizioni, ci sono anche le reticenze. Appare quantomeno balzano difatti che in un discorso programmatico come questo i riferimenti alla politica estera siano stati sostanzialmente assenti: soprattutto nell’ambito di una campagna elettorale post obamiana in cui il tema della foreign policy sembra destinato a tornare di fortissima attualità, come dimostra l’aspro dibattito in seno al Partito Repubblicano proprio in questi giorni. La ragione, certo, è facilmente intuibile. La politica estera avrebbe richiamato il ruolo di Hillary come Segretario di Stato e conseguentemente tutti gli aspetti controversi che la riguardano: da Bengasi alle email, passando per i finanziamenti opachi alla Clinton Foundation.

Ed è un punto grave: non solo il fatto che – al momento – il più forte candidato alla presidenza degli Stati Uniti d’America non abbia un programma di politica estera (differentemente da diversi suoi rivali repubblicani come Jeb Bush) ma soprattutto perché, invece di contrattaccare rispetto alla pioggia di accuse che in questi mesi le hanno rivolto contro, Hillary prediliga ancora mantenere una posizione difensiva e attendista. Quello che – in altri termini – può essere considerato un segno di debolezza politico-elettorale non di poco conto, soprattutto se si tiene in considerazione il fatto che questa fosse un’ottima occasione per una replica vigorosa. Una replica che non c’è stata e che getta un’ulteriore ombra inquietante sulla campagna della Clinton, perché potrebbe significare che quelle accuse siano davvero potenzialmente in grado di metterla fuori gioco.

A dispetto dunque del vigore comunicativo e del potente apparato che la sostiene, la strada che la principessa del popolo ha per arrivare allo Studio Ovale continua a prospettarsi in salita. L’incognita maggiore tuttavia si colloca nella compagine dei suoi avversari: soprattutto nello schieramento repubblicano. Eh sì, perché una cosa vera Hillary l’ha indubbiamente detta in questo discorso: i repubblicani continuano a cantare sempre la stessa, vecchia, canzone: “Yesterday”, mentre lei rappresenterebbe il futuro.

Ora, che una signora di 67 anni, ex first lady, ex senatrice ed ex Segretario di Stato rappresenti il futuro non sembra molto convincente. Ma è anche vero che nel GOP al momento la situazione non appaia particolarmente migliore: diviso, com’è, tra i fautori di una destra religiosa integralista e chi considera il reaganismo ancora un totem intoccabile.

Bisogna sperare che all’orizzonte di questa campagna elettorale si riesca prima o poi a intravvedere qualcosa di nuovo e potente che affronti le sfide del futuro. Qualcosa che va al di là di ideologie stanche, slogan ritriti e princìpi obsoleti. Per non morire d’ipocrisia. Per non morire d’inerzia. Per non morire di noia.

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