America

USA 2016, Donald Trump torna all’attacco sull’immigrazione

12 Luglio 2015

Donald Trump va all’attacco. Ieri, in un incontro elettorale tenuto a Phoenix (Arizona), il miliardario candidato repubblicano ha pronunciato un duro discorso sulla questione dell’immigrazione. Un discorso vigoroso che sfida apertamente l’opinione pubblica e l’establishment del suo stesso partito, sempre più imbarazzato per la sua presenza.

Notoriamente Trump non è mai stato tenero sul problema dell’immigrazione. Sono anni  che sostiene la necessità di costruire un muro al confine con il Messico in funzione anti-clandestini. Un progetto che ha rispolverato, in occasione della sua discesa in campo per la conquista della nomination repubblicana. Un progetto che ha recentemente farcito di durissime dichiarazioni, volte a dipingere gli immigrati clandestini messicani come delinquenti e stupratori. Una serie di dichiarazioni che gli hanno attirato addosso una bufera di critiche non soltanto dai democratici (Hillary Clinton in testa) ma anche dagli stessi compagni di partito, sempre più preoccupati che l’istrionico comportamento di Trump finisca con il ledere l’intera  immagine del GOP: non a caso il senatore dell’Arizona, John McCain, ha preventivamente rifiutato di partecipare al comizio.

Ed è proprio questa la strategia di Hillary in questi giorni: convincere gli elettori che le posizioni radicalmente anti-immigrazione del miliardario non sarebbero affatto isolate all’interno del Partito Repubblicano, da lei tacciato in definitiva di essere tanto obsoleto quanto estremista.

Come che sia, nonostante il polverone mediatico, Trump – nel suo discorso di Phoenix –  ha rilanciato energicamente le proprie posizioni. Ha sostenuto come le sue precedenti affermazioni fossero dirette esclusivamente all’immigrazione clandestina e non a quella legale, arrivando ad affermare: “I love legal immigration”. Ed è infatti su quella illegale che ha appuntato nuovamente i suoi strali. Ha difatti sostenuto come l’immigrazione clandestina non soltanto sottragga lavoro ai cittadini americani (soprattutto nel settore manifatturiero) ma come sia anche profondamente pericolosa sotto il profilo sociale e dell’ordine pubblico. In tal senso, il miliardario – per avvalorare le sue tesi – ha chiamato sul palco persone che testimoniassero violenze subite da immigrati clandestini.

Un modo per respingere al mittente le critiche di questi giorni. E soprattutto per attaccare quei compagni di partito, giudicati troppo morbidi sulla questione. Non a caso il principale bersaglio di Trump è stato proprio Jeb Bush, storicamente noto per le sue posizioni aperturiste in materia di immigrazione, dai tempi in cui era governatore della Florida (dal 1999 al 2007). Quello stesso Bush che nel corso dell’attuale campagna ha ribadito più volte il ruolo essenziale dell’immigrazione per la crescita economica e che ha presentato un programma di integrazione progressiva – quantunque non di cittadinanza automatica –  per gli immigrati clandestini.

E Trump lo ha difatti attaccato a testa bassa, affermando che sia un debole, incapace di rappresentare adeguatamente la base elettorale del Partito Repubblicano. Quella “maggioranza silenziosa” di cui – al contrario – Trump si dice il fedele portavoce, nel nome di una riscossa che – a suo dire – porterebbe nuovamente il GOP alla Casa Bianca.

Per quanto anche stavolta si sia levato il consueto vespaio di polemiche (da sinistra come da destra), c’è comunque da rilevare che effettivamente una parte considerevole della base repubblicana appoggi il radicalismo di Trump, evidenziando un dato profondamente problematico per il GOP: un partito che mai come oggi ha necessità di aprirsi a frange elettorali nuove (soprattutto nell’elettorato ispanico) ma che rischia – così facendo – un’emorragia di voti a destra.

Al di là delle sparate a sfondo razzistico, il grande problema politico della figura di Trump è che quest’ultimo non ragioni in termini effettivamente inclusivi (cioè presidenziali) ma settari. Solletica, cioè, la pancia dell’elettorato più radicale, mettendosene a capo e contribuendo così a spostare ampie frange del partito sempre più a destra. Come se non bastassero già il Tea Party e la religious right: eh sì, perché alla fine dei conti il nostro Donald non è ascrivibile a nessuna di queste due correnti. Non sembra particolarmente mosso da alcun afflato religioso. E – proprio sull’immigrazione – è entrato recentemente in polemica con alcuni personaggi molto vicini al Tea Party (come l’ex governatore del Texas, Rick Perry).

Trump si gioca quindi la carta del battitore libero, un populista fuori dagli schemi, in polemica non soltanto con l’establishment del partito ma con il GOP tutto. Un GOP  che guarda dunque sempre con maggior fastidio e imbarazzo verso un candidato che tuttavia non può permettersi di sconfessare pienamente: la grande paura dei repubblicani è che – espellendolo – Trump possa trasformarsi in un Bernie Sanders di destra e che – presentandosi dunque come indipendente – possa sottrarre preziosi voti all’Elefantino in contesto di general election. Ancora brucia nella memoria di tanti d’altronde il ricordo di Ross Perot, che contribuì alla sconfitta di Bush padre nel 1992.

Un populismo – quello di Trump –  che evidenzia comunque un dato di fatto: una quota elettorale impaurita dall’immigrazione che non può essere ignorata e a cui i candidati più presidenziali (a partire da Jeb Bush) devono imparare a parlare e a offrire soluzioni concrete. Perché il populismo ideologico può essere sconfitto soltanto attraverso un sano realismo: che eviti il semplicismo degli isterismi ma che affronti anche effettivamente i problemi, evitando di nascondersi ipocritamente dietro a un dito.

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