America

USA 2016, Dio salvi Jeb Bush!

1 Novembre 2015

Miami, abbiamo un problema. E grosso, pure. Che Jeb Bush fosse inguaiato non era certo un mistero: con una campagna elettorale mai effettivamente decollata, costantemente esposta alle coltellate incrociate dei democratici e dei candidati  anti-sistema. Additato da tutti a maggio come il front runner repubblicano, si è visto via via sottrarre consenso all’interno di stati in cui si credeva avrebbe potuto dominare con facilità: non solo in New Hampshire (solitamente espressione di un voto moderato, non certo estraneo alle corde dei Bush) ma anche in Florida (da sempre considerata il suo feudo, essendone stato governatore dal 1999 al 2007).  Stati, in cui attualmente il voto radicale dei Trump e dei Carson si pone inquietantemente in testa.

E adesso ci si interroga sul perché di questa debacle. Capitata ad uno dei candidati più potenti, danarosi ma anche –  in fin dei conti – più preparati dell’attuale corsa elettorale. E la risposta che si danno in molti è una sola: una fallimentare strategia di comunicazione. Un elemento notevole, se letto alla luce del fatto che storicamente i Bush abbiano sovente utilizzato la comunicazione con una certa maestria e abilità. Non che si siano mai rivelati comunicatori fantasmagorici, capaci di creare chissà quali grandiose “narrazioni” (come si dice oggi): qualcosa, cioè, che ricordi anche pallidamente i messaggi rivoluzionari e speranzosi di Ronald Reagan, Bill Clinton o Barack Obama.

No: la narrazione dei Bush si è sempre contraddistinta per tratti meno enfatici ma – in fin dei conti – più concreti. Presentarsi come candidati seri, preparati, moderati e -soprattutto – educati, sorridenti e inclusivi. Una strategia di facciata, cui ha sempre fatto da contraltare un gioco pesante (a tratti sporco), abilmente condotto dietro le quinte: un gioco di veleni e calunnie, pronti ad essere usati per annientare i rivali più pericolosi, lasciando i pesci piccoli a scannarsi reciprocamente. Nel 1988 George H. Bush affossò il rivale democratico Michael Dukakis, mettendo deliberatamente in giro falsità sul suo programma elettorale. Nel 2000, il figlio George Walker, avviò una campagna denigratoria contro John McCain, arrivando a sfiorare la diffamazione. Ma in tutto questo i Bush non hanno mai perso il sorriso sulle labbra, non hanno mai attaccato in modo direttamente violento un avversario, hanno sempre teso a presentarsi come bravi ragazzi: magari gaffeur ma ciononostante seri, competenti e moderati.

In virtù di ciò, Jeb ha avviato una campagna elettorale chiaramente all’insegna della strategia di famiglia. Ma ha commesso due tremendi errori. Il primo: l’anacronismo. Puntando molto sull’immagine di candidato serio, professionale, capace e – soprattutto – di esperienza, ha impostato la propria campagna su criteri obsoleti: criteri che avrebbero potuto funzionare magari sino ad otto anni fa ma che oggi si sono rapidamente trasformati da punti di forza in talloni d’Achille. Eh sì, perché nel corso di questi ultimi anni la carica antipolitica è fortemente cresciuta in America. Un’America che -non a caso – ha prodotto le candidature inopinatamente di successo dei vari Trump e Carson. Candidature che contestano la politica di professione, indicandola come la principale causa dell’attuale declino statunitense. In tal senso, Jeb si è trovato del tutto impreparato nel reagire agli attacchi di Trump: attacchi buffoneschi, spesso inconsistenti, ma comunicativamente efficaci che lo hanno coperto più volte di ridicolo. Attacchi, a cui l’ex governatore ha  replicato, ribadendo la propria professionalità ed esperienza, non rendendosi conto di peggiorare così la sua posizione. E difatti, sia nel dibattito televisivo di Cleveland che in quello alla Reagan Library, Bush (fatta eccezione per pochi guizzi) si è ritrovato sostanzialmente eclissato dal fulvo magnate, che ha continuato imperterrito nella sua efficacissima scorrettezza politica, nel definirlo null’altro che un feudatario e un pappamolle.

Il secondo errore, poi, Jeb l’ha commesso sul sogno. A ben vedere infatti, bisogna notare che la suddetta strategia dei Bush ha sempre funzionato in presenza di candidati non eccessivamente abili sul fronte comunicativo. Contro contendenti, cioè, non necessariamente inetti sul piano politico ma comunque incapaci di suscitare forti emozioni e speranze nell’elettorato. Dukakis nel 1988 non era certo J. F. Kennedy; Gore nel 2000 era forte ma anche molto spocchioso e antipatico; Kerry nel 2004, con quella faccia ingessata, sembrava un cartone animato. Il problema tuttavia è che Jeb stavolta non si sta scontrando soltanto con candidati che si muovono al di fuori degli schemi tradizionali ma anche con personaggi capaci di incarnare un sogno vivido di speranza e giovinezza, che cozza irrimediabilmente con la tiritera dell’esperienza. Personaggi come Marco Rubio.

Il giovane senatore cubano avanza infatti sempre più nei sondaggi e sta iniziando a surclassare il suo vecchio mentore. Recentemente lo ha addirittura sorpassato in Florida di ben due punti percentuali. Entrambi hanno evitato per mesi di pizzicarsi ma alla fine lo scontro c’è stato. Durante l’ultimo dibattito televisivo in Colorado, Jeb ha improvvisamente attaccato l’ex pupillo di assenteismo al Senato, invitandolo a dimettersi per proseguire poi la campagna elettorale. Rubio, che evidentemente attendeva da tempo una simile accusa, ha replicato chiedendogli perché allora nel 2008 avesse dato il suo endorsement a John McCain (che correva per la nomination repubblicana, da senatore in carica). Colpito e affondato. Bush non solo non ha saputo rispondere ma il pubblico ha subito preso le parti del giovane senatore. Un passo falso di gravità colossale, che manifesta un serio nervosismo all’interno dello staff di Jeb: e difatti – secondo indiscrezioni riportate da Politico – sembra che il suo principale spin doctor, Danny Diaz, sia in queste ore particolarmente agitato e non proprio lucidissimo.

Per questo, sembrerebbe che voglia cambiare senso alla narrazione finora portata avanti da Bush in questa campagna. Preso atto del fallimento dell’immagine di candidato presidenziale e very polite, l’idea sarebbe ora quella di attuare una comeback strategy: impostare tutto sull’elemento della riscossa, presentando Jeb come una figura eroica, in grado di risollevarsi dalle avversità, prendere il famigerato toro per le corna e vincere. Una strategia, declinata sulla falsariga di quella utilizzata da McCain nel 2008. Una strategia interessante che – in astratto – potrebbe anche rivelarsi più forte e coinvolgente di quella fondata sulla speranza nel futuro (alla Rubio), di quella del combattente (alla Cruz) o di quella del self made candidate (alla Trump).

Il problema è che la storia personale di Jeb non è quella di McCain. Per quanto quest’ultimo tra i repubblicani sia sempre stato considerato un maverick, la sua esperienza di soldato e prigioniero di guerra lo poneva in una condizione di maggiore credibilità per dimostrare la sua capacità di lottare contro le avversità soverchianti. Bush si troverebbe invece oggi nell’imbarazzo di cambiare narrazione a metà della corsa elettorale, col rischio di trasformare un tentativo di rivincita in un’ammissione di incapacità. Un’ammissione che sta in parte già facendo, visto che, davanti ai finanziatori sempre più freddi e scettici, ha pubblicamente dichiarato di essere consapevole di dover fare di più.

Vedremo se Jeb sarà capace di attuare questa svolta alla propria campagna elettorale. E’ pur vero che anche suo fratello sia nel 2000 che nel 2004 dovette affrontare campagne difficilissime, con sondaggi che lo davano spacciato per poi trionfare improvvisamente nelle urne. Ma un dato è comunque certo. Il candidato che era partito come un predatore somiglia ormai sempre più a una preda.

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