America

USA 2016, Cleveland: il primo dibattito repubblicano

7 Agosto 2015

Cleveland (Ohio). Si è appena concluso il primo dei due dibattiti elettorali per le primarie repubblicane del 2016,  organizzati da Fox News: quello dedicato ai sette candidati attualmente collocati nella bassa classifica dei sondaggi. Un dibattito durato poco più di un’ora. Un dibattito che non passerà certo alla Storia per battute epocali o per grandi esempi retorici. Un dibattito tutto sommato abbastanza tranquillo, con pochi guizzi, poche polemiche, qualche ovvietà: insomma, se non proprio una noia mortale, poco ci è mancato.

La conduzione, affidata a due giornalisti, ha puntato tutto sulla rapidità. Domande brevi (divise per argomenti) e risposte altrettanto rapide. Il tutto avviato in uno straniante clima di euforia (sembrava quasi di stare a “Scommettiamo Che”), per poi entrare in un’atmosfera di maggiore serietà politica. I temi trattati sono stati svariati: dall’immigrazione illegale alla politica estera, passando per l’economia e le tematiche eticamente sensibili (aborto in primis).

Tra i candidati di maggior risalto, troviamo innanzitutto Carly Fiorina. Non che si sia contraddistinta per originalità (se si eccettua il fucsia sparato del suo vestito): ha ripreso la solita tiritera della sua esperienza di businesswoman, ha rivendicato  – ancora una volta – di non essere una “professionista della politica”, così come ha ribadito a più riprese di essere una vera conservatrice, attenta ai valori dell’America e della vita. No, la bravura della Fiorina è stata semmai in alcune frecciate particolarmente velenose e acuminate.

All’inizio, dopo essere stata appositamente provocata dai giornalisti, ha accusato Trump di non essere un vero repubblicano, ricordando la recente telefonata ricevuta dal miliardario da parte del vecchio amico Bill Clinton, che – pare – gli abbia fornito dei suggerimenti per il dibattito di stasera. Poi, è andata giù pesante contro Hillary, rinfacciandole le bugie proferite su Bengasi e lo scandalo delle email. Chapeau! Una Fiorina in grande spolvero dunque, che ha incassato i complimenti di Rick Perry, il quale ha detto che sarebbe stata un segretario di Stato molto più capace di John Kerry.

Anche l’ex governatore del Texas poi non se l’è cavata male. Dopo le pessime performance all’inizio delle primarie del 2012, oggi è parso molto più sicuro di sé e grintoso, talvolta al limite della spacconeria: a tratti sembrava John Wayne in “Un dollaro d’onore”. Ha affermato di aver studiato, di essersi preparato e di poter contare su un’adeguata esperienza governatoriale alle spalle. Ha scelto di incarnare l’uomo duro, vigoroso, dal pugno di ferro. E’ andato difatti giù pesante sull’accordo con l’Iran e l’immigrazione illegale (asserendo la necessità di rinforzare i confini).

Curiosa la performance del senatore Lindsey Graham. Come prevedibile, ha puntato tutto sulla politica estera (suo storico cavallo di battaglia): ha glissato domande pur di arrivare a parlarne in ogni occasione possibile. In particolare ha sostenuto la necessità di una leadership americana a livello globale, sotto il profilo politico e militare, ravvisando nell’Isis il principale nemico contro cui dirigersi con fermezza e decisione (contrariamente alle azioni deboli e indecise di Obama). Per quanto monotematico, a tratti è apparso come il vero candidato presidenziale: forse a causa del tono solennemente oracolare e ieratico con cui ha pronunciato ogni singola parola di ogni suo singolo intervento, senza poi contare lo sguardo ispirato da profeta con cui – anziché fissare la telecamera – guardava in alto. Molto calato nella parte. Non si sa bene se quella del Presidente americano o di Mosé che libera gli ebrei dall’Egitto.

Poi c’è stato Rick Santorum. Alle prese con sondaggi particolarmente inclementi (soprattutto se si pensa che nel 2012 si piazzò secondo alle primarie, dietro Mitt Romney), non è apparso particolarmente decisivo. Sicuramente si è agitato molto, forse per attrarre l’attenzione. Ha anche cercato di parlare di politica estera, suo nuovo pallino, usato per accreditarsi anche al di fuori dei circoli della religious right. Per il resto, non si è distinto più di tanto, sospeso tra vecchi cavalli di battaglia (la lotta all’aborto) e nuovi vessilli su cui è rimasto tuttavia abbastanza generico, dall’economia all’immigrazione (per inciso, l’accostamento dell’Italia a Mussolini un italoamericano come lui poteva pure evitarlo).

Non particolarmente brillante Bobby Jindal. Anche lui ha recitato la parte del conservatore duro, ha attaccato i democratici (e Obama in particolare) per eccesso di statalismo. Anche lui ha invocato una stretta sull’immigrazione e ha ricordato la propria “prodigiosa” esperienza da governatore della Louisiana. Ha poi affermato che i democratici avrebbero trasformato il sogno americano in un incubo.  Unica nota distintiva: aizzato dai giornalisti, ha attaccato direttamente il rivale John Kasich (che prenderà parte al dibattito successivo), per aver esteso il programma sanitario Medicaid in Ohio. L’unico attacco a un candidato repubblicano in corsa, se si eccettuano le critiche di Perry e Carly Fiorina, rivolte a Trump.

Non particolarmente accesi infine Pataki e Gilmore: il primo si è detto assolutamente inflessibile verso l’Isis e pronto a correre proprio in forza della sua esperienza governatoriale. Il secondo ha puntato più classicamente sulla critica allo statalismo obamiano e su una linea dura in termini di immigrazione.

Un dibattitto tutto sommato abbastanza grigio. Un dibattito in cui non si può dire ci sia stato un vero vincitore. Forse il “ticket” Fiorina-Perry. Ma anche Graham non si è portato male. Mi ha fatto venir voglia di rivedermi un film: “I Dieci Comandamenti”.

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