America
USA 2016, che fine ha fatto il Tea Party?
L’attuale lotta intestina al Partito Repubblicano ci interroga sul ruolo che giocherà il Tea Party in seno alle prossime elezioni presidenziali. Un ruolo che – a ben vedere – non risulta ad oggi precisamente delineato, dal momento che non sembra aver ancora trovato un candidato definitivo intorno a cui compattarsi. E la confusione aumenta, se si considera la natura ideologicamente bizzarra di questo movimento: che si è esposta nel corso degli anni a sempre maggiori contraddizioni.
Sorto come movimento di protesta radicalmente anti-tasse, le prime avvisaglie della sua nascita si intravedono già negli ultimi anni dell’amministrazione di George Walker Bush e nella strenua opposizione alla sua decisione di usare denaro pubblico per salvare le banche allo scoppio della crisi finanziaria nel 2007. Ma è con l’avvento di Barack Obama alla Casa Bianca che il Tea Party assume via via i connotati di un movimento più strutturato, sfruttando in particolar modo l’utilizzo di internet e dei social network, per organizzare imponenti manifestazioni di protesta contro le politiche sociali del nuovo presidente (soprattutto l’Obamacare).
Negli anni successivi, la sua influenza cresce in seno al Partito Repubblicano, tanto che in occasione delle mid term elections del 2010 un discreto numero di candidati, più o meno formalmente appoggiati dal Tea Party, approda al Congresso. Un evento di indubbia rilevanza, che avvia uno scontro in seno all’Elefantino tra l’ala moderata dell’establishment e una nuova corrente radicale, particolarmente agguerrita, che rifiuta ogni compromesso in nome di uno spirito militarmente barricadiero. Una sorta di guerra civile che perdura ancora oggi: e che – tra le altre cose – ha determinato le recenti dimissioni dello Speaker, John Boehner. Da sempre considerato un bersaglio dei tea party, vista la sua propensione all’inciucio coi nemici democratici.
Ma anche sul fronte della corsa presidenziale il movimento ha frequentemente detto la sua. Se lo ricorda bene John McCain, che nel 2008 fu costretto a rinunciare a Condoleezza Rice come propria vice, virando su Sarah Palin (allora paladina indiscussa del movimento). E la stessa scelta di Paul Ryan da parte di Mitt Romney nel 2012 fu parzialmente dettata dalla volontà di accattivarsi le simpatie di quest’area radicale. Un’area da sempre problematica. Non soltanto perché spesso eccessivamente conservatrice. Ma anche perché alla fin fine non del tutto lineare sotto il profilo ideologico.
Come detto, il primo vagito del Tea Party si è consumato difatti in una prospettiva crudamente anti-statalista. Tanto che – soprattutto nei primissimi anni – uno dei gridi di protesta preferiti degli appartenenti al movimento era “I am John Galt“, in riferimento al noto personaggio del romanzo “La rivolta di Atlante“, della filosofa Ayn Rand: autentico mito del libertarianism statunitense. In tal senso, nella sua eterogeneità, il Tea Party si è sempre configurato come crocevia di mondi diversi: ospitando alcuni settori della destra religiosa così come larghe frange del libertarianismo classico. Tanto più che, in occasione delle primarie del 2012, non pochi appartenenti al movimento dichiararono il proprio appoggio a Ron Paul. In tutto questo, l’accento anti-statalista è sempre rimasto predominante e le differenze emergevano semmai in termini di politica estera: con l’ala libertarian dei Paul maggiormente tendente all’isolazionismo, da una parte, e l’interventismo selettivo di Sarah Palin, dall’altra.
Sennonché le cose ultimamente sembrano cambiate. Almeno in parte. Eh sì, perché diverse settimane fa alcuni sondaggi riportavano che frange cospicue dell’elettorato vicino al Tea Party starebbe oggi supportando Donald Trump. Quello stesso Trump che – se da una parte effettivamente propone un programma fortemente anti-tasse – dall’altra è contemporaneamente su posizioni economiche di carattere protezionista (dalla Trans Pacific Partnership alle relazioni con la Cina): posizioni, insomma, non propriamente in linea con il liberismo ortodosso della famiglia Paul e della stessa filosofia randiana.
Se queste rilevazioni fossero corrette, si chiarirebbe allora la vera natura del Tea Party: non un movimento autenticamente libertariano ma ideologicamente semmai schiacciato su un’anima fondamentalmente populista: capace all’occorrenza di giravolte abissali e contraddittorie. Perché sarà anche vero che non si tratti di un movimento omogeneo e centralizzato (avendo fatto, anzi, della decentralizzazione in passato uno dei suoi punti di forza). Ma è anche indubbio che – come ricordato – soprattutto all’inizio ha fatto della battaglia anti-stato la propria principale ragion d’essere. E vederlo adesso correre dietro al fulvo magnate non è esattamente il massimo della coerenza. D’altronde diversi sondaggi condotti nel 2010, ravvisavano il sostenitore medio del Tea Party nel maschio bianco di 45 anni: l’identikit spiccicato -sembra- dell’attuale elettore di Trump.
In tal senso, il caso del Tea Party non fa che esemplificare una volta di più dei tratti tipici dell’ultraconservatorismo statunitense. La tendenza al giudizio aleatorio, la focalizzazione sui singoli personaggi (ieri Palin, oggi Trump) e una scelta ideologica sbandierata,sì, ma non effettivamente creduta e vissuta. Un problema assai rilevante per il Partito Repubblicano che da anni non sa come trattare con queste frange incostanti e pronte a cambiare cavallo dall’oggi al domani. Frange multiformi, accomunate da un più o meno legittimo sentimento di protesta, che si aggregano intorno a determinati elementi, per poi disgregarsi e coagularsi successivamente in qualcosa di nuovo. Un recente sondaggio condotto a ottobre scorso da Gallup mostra come gli americani che si dichiarano simpatizzanti del Tea Party dal 2010 a oggi siano sostanzialmente dimezzati. Eppure dall’altra parte non si può certo non riconoscere l’ottima salute dell’ala radicale che – almeno nelle rilevazioni sondaggistiche – sta premiando i candidati repubblicani più massimalisti (da Trump a Ted Cruz).
Difficile dunque che il Tea Party, in quanto tale, possa trasformarsi in una sorta di terzo partito. E’ semmai forse maggiormente corretto inscriverlo all’interno di un trend generale che caratterizza la politica americana nella sua interezza (a destra come a sinistra): la scissione sempre più drammaticamente profonda tra un’ala istituzionale e un’ala anti-sistema, nella sempre più difficile possibilità di riuscire a trovare un’autentica sintesi tra di esse.
E poco importa se si corra dietro a mamma orsa o a un’esagitata chioma bionda. Purché si possa sbraitare in libertà, infischiandosene delle alternative di governo. Soprattutto quelle credibili.
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