America
USA 2016, aspettando il dibattito repubblicano di Cleveland
Ci siamo. Tra poche ore avrà luogo il primo dibattito elettorale delle primarie repubblicane. E si annunciano scintille. Per l’esattezza, la FOX ha organizzato due confronti, che si terranno entrambi a Cleveland (in Ohio): il primo, alle ore 15,00, dedicato ai sette candidati, attualmente collocati nella bassa classifica dei sondaggi; il secondo, alle 21,00, cui prenderanno parte i competitor al momento più forti in termini di gradimento e consenso elettorale. Inutile dire che l’attenzione sia quasi esclusivamente puntata su quest’ultimo, perché è da tale compagine che – verosimilmente – emergerà il prossimo candidato repubblicano alla Casa Bianca.
Un dibattito che si preannuncia quindi di notevole interesse, non soltanto in forza del confronto che verrà a crearsi tra alcuni dei candidati presenti ma anche – e soprattutto – a causa dell’incognita Trump, la quale da mesi ormai ha inquietantemente sparigliato le carte all’interno del GOP: un’incognita che, con ogni probabilità, mostrerà plasticamente questa sera tutto il suo peso e la sua forza all’interno della corsa per la nomination repubblicana. Un’incognita che molto probabilmente inciderà con decisione in seno al dibattito.
In tal senso, sotto un profilo generale, potrebbe verificarsi un’ipotesi scontata: ovverosia una sorta di tacita coalizione tra i nove candidati “istituzionali” (Bush, Walker, Rubio, Cruz, Christie, Huckabee, Paul, Carson e Kasich) contro l’outsider in parrucca: una sorta di santa alleanza, che – attraverso attacchi e assist coordinati – miri a ghettizzarlo, tacciandolo di impresentabilità, per cercare di estrometterlo poi dalla corsa. Una soluzione che avrebbe anche un senso ma che – a ben vedere – potrebbe rivelarsi di difficile attuazione. E questo per due ragioni: una strategica e una fattuale.
Innanzitutto difatti un eventuale scontro di nove contro uno, potrebbe finire con l’avvantaggiare Trump, il quale avrebbe buon gioco a presentarsi come il candidato perseguitato da un establishment che vorrebbe soltanto mantenere le proprie rendite di potere all’interno del partito: anzi, un’ eventuale coalizione dei suoi avversari finirebbe proprio con l’avvalorare le tesi da lui espresse, in virtù di cui l’Elefantino sarebbe ormai da tempo ostaggio di gruppi di potere vecchi e arroccati sulle proprie poltrone.
In secondo luogo, anche laddove ci fosse da parte di alcuni l’intenzione a procedere strategicamente compatti contro Trump, non è detto che tutti i nove concorderebbero. Prima ho difatti definito i nove come “candidati istituzionali”: una definizione che – a ben vedere – non risulta calzante proprio per tutti. Il caso più evidente è certamente quello di Ted Cruz.
Senatore ultraconservatore del Texas, Cruz ha sempre fatto del radicalismo di destra il proprio cavallo di battaglia. Fin qui, nulla di che, non essendo l’unico esponente conservatore che parteciperà al dibattito serale (ci saranno difatti anche Huckabee e Carson). Sennonché, Cruz ha avviato da alcuni giorni una strategia curiosa. Al Congresso ha ingaggiato una guerra contro la totalità dell’establishment repubblicano, mentre sul fronte della corsa elettorale è al momento l’unico candidato ad aver pubblicamente difeso Donald Trump. Una difesa che ha di fatto ripetuto domenica scorsa, durante un evento elettorale organizzato dai fratelli Koch, storici finanziatori del GOP, nonché notori avversari politici del miliardario in toupet.
Qualche giorno fa, abbiamo scritto che un simile comportamento possa preludere ad un eventuale ticket Trump-Cruz, nel caso il magnate abbandonasse il GOP e decidesse di correre da indipendente (come Ross Perot nel 1992): un’ipotesi indubbiamente azzardata, soprattutto a questo stadio. Ciononostante riteniamo che il comportamento che Cruz terrà questa sera possa essere rivelativo della propria strategia futura: bisognerà, cioè, vedere se prenderà le distanze dal miliardario, attaccandolo; o se – al contrario – cercherà un’intesa con lui, nella speranza magari di costituire un fronte che neutralizzi i rivali di destra, così come i candidati centristi.
Un’ipotesi, quest’ultima, che appare particolarmente plausibile: non bisogna difatti dimenticare che il successo di Trump nei sondaggi sta testimoniando una sua cannibalizzazione elettorale verso il fronte ultraconservatore. Candidati radicali come Santorum o Perry (che nelle primarie del 2012 partirono con ottimi numeri) sono inchiodati oggi nella bassa classifica, subendo la concorrenza spietata di un Trump in grande spolvero e assolutamente ineguagliabile in termini di comunicazione ed efficacia retorica. In un simile contesto, è allora verosimile ritenere che Cruz abbia compreso l’inutilità di sfidare Trump sul suo stesso terreno e che possa rivelarsi dunque maggiormente proficuo averlo come alleato che come nemico.
Infine, diamo uno sguardo agli altri candidati. Il grande punto interrogativo di questo primo confronto ha un nome ben preciso: si chiama Jeb Bush. Da sempre propugnatore di un programma centrista (ispirato ai crismi del cosiddetto “compassionate conservatism”), Bush – c’è da giurarci – finirà con l’essere il principale bersaglio della retorica populista di Trump. Ad oggi, per quanto in discesa nei sondaggi, è comunque ancora idealmente considerato il front runner repubblicano: il candidato veramente presidenziale. Un’immagine che egli dovrà dunque difendere a tutti i costi e non sarà facile. Come hanno notato diversi analisti su “Politico” in questi giorni, il problema per Jeb sarà trovare una strategia comunicativa efficace per veicolare questa immagine composta, moderata, inclusiva e istituzionale.
Una strategia complicata, proprio perché in difficile equilibrio, sotto il fuoco incrociato dei suoi rivali più radicali. Soprattutto per contrastare Trump molti esperti hanno sconsigliato reazioni brute, suggerendo al contrario l’ironia e la chiarezza programmatica. Vedremo presto se il rampollo di Casa Bush avrà i numeri per farcela mostrandosi veramente come un futuro presidente e inchiodando i populismi aggressivi alle loro contraddizioni e inconsistenze.
Altra grande attesa è poi riservata al governatore del Wisconsin, Scott Walker. Candidato reaganiano e non del tutto estraneo alla religious right, Walker ha da due mesi impostato la sua campagna su due punti essenziali: la lotta ai sindacati (da lui condotta e vinta a più riprese da governatore) e la centralità della politica estera (ha difatti cercato di colmare le lacune dovute alla propria inesperienza con frequenti viaggi internazionali). Come Bush, Walker parte da una posizione di alto gradimento nei sondaggi e dovrà quindi giocare oggi una battaglia in difesa, cercando di mantenere la posizione più che di estendersi, rischiando. Certo: se magari iniziasse a parlare di qualcos’altro oltre che dei suoi sentimenti anti-sindacali, magari potrebbe suscitare un po’ più di interesse!
Discorso capovolto per Marco Rubio. Ex pupillo di Jeb Bush, il giovane senatore – pur andando discretamente in termini di immagine – non è ancora veramente decollato sul fronte dei sondaggi, attestandosi intorno al 7%. Va da sé allora come la sua sarà stasera una strategia prevalentemente di attacco, che ne accresca notorietà e credibilità, rompendo alfine il cordone ombelicale che ancora lo lega – pur tra mille contrasti – all’ex governatore della Florida. E’ probabile che porterà avanti un centrismo aggressivo, prediligendo la politica estera e il suo bersaglio preferito: l’ex segretario di Stato, Hillary Rodham Clinton.
Forte curiosità poi per Chris Christie. Da sempre su posizioni molto moderate (è generalmente considerato più a sinistra di Bush), la performance del governatore del New Jersey è attesa più sul fronte comunicativo che programmatico. Noto per la sua abilità retorica, c’è chi crede che possa essere la vera sorpresa di questo dibattito. Staremo a vedere.
Sempre al centro poi troveremo John Kasich. Sceso ufficialmente in campo da poco, è riuscito a salire adeguatamente nei sondaggi per assicurarsi di partecipare al dibattito di stasera. Suo dovere sarà quello di differenziarsi da Bush, di cui sostanzialmente condivide le prospettive programmatiche. Possibile uno scontro con Walker sulla questione sindacale: contrariamente a quest’ultimo lui, da governatore, è stato sconfitto dai sindacati.
Minore attesa per Rand Paul. Tralasciando il fatto che sembra stia conducendo una campagna elettorale a dir poco disastrosa (non riesce a raccogliere fondi e – quando gli si presenta l’occasione – li rifiuta per idealismo), è difficile che possa staccarsi più di tanto dalla retorica libertarian del padre Ron. E’ pur vero che Rand si è sempre dimostrato un buon oratore (ha vinto, per esempio, la CPAC di febbraio) ma con ogni probabilità finirà per consolidare il suo zoccolo duro di libertarian ortodossi e non smuoverà molti voti. Non sarà un caso che da tempo è dato stabile in Iowa e New Hampshire all’8% (e di lì non si muove).
Abbiamo infine la religious right, rappresentata dall’ex neurochirurgo Ben Carson e dall’ex governatore dell’Arkansas, Mike Huckabee. Dovranno durare fatica per emergere rispetto a Trump, che – probabilmente – finirà con l’oscurarli.
Per concludere, un’occhiata al dibattito pomeridiano. A prima vista non sembrano esserci elementi di grande interesse. Ma occhio a due (possibili) eccezioni: Carly Fiorina e Lindsay Graham.
Unica donna a correre per la nomination repubblicana, la Fiorina vanta un curriculum professionale controverso e uno politico disastroso (nel 2008 fu scavalcata da Sarah Palin come candidata alla vicepresidenza, mentre nel 2010 perse in California, letteralmente annientata da Barbara Boxer). Perché allora tenerla d’occhio? Perché sembrerebbe comparire tra i pupilli dei fratelli Koch (che l’hanno difatti invitata al loro evento elettorale lo scorso week-end): e se i Koch guardano con interesse a qualcuno, significa che questo qualcuno allora è possibile abbia delle chances.
Dal canto suo invece, Graham è inchiodato a percentuali irrisorie. Eppure in termini di esperienza al Congresso (soprattutto in materia di esteri), è forse l’unico tra i sette tapini del pomeriggio che possa vantare un discreto curriculum. Da notare poi che nelle ultime settimane si è messo particolarmente in mostra nei suoi attacchi contro Trump (soprattutto in difesa di McCain, il quale ricambia e lo appoggio apertamente). Una serie di elementi che non bastano a garantirgli di emergere ma che comunque potrebbero riservargli maggiori possibilità rispetto ai suoi rivali pomeridiani.
I dibattiti sono alle porte, signore e signori. L’Elefantino barrisce. E scorrerà del sangue. C’è da giurarci.
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