America
Un presidente che sia un buon ragioniere
Siamo spesso risucchiati in un vortice di impegni e appuntamenti che talvolta perdiamo la direttiva. Ci dimentichiamo di fare bilanci su ciò che volevamo e ciò che abbiamo ottenuto, tra quelle che erano le nostre aspirazioni e quello che é il nostro lascito. Trascurare i bilanci porta a smarrimento, scarsità di visione ed errori.
Tra meno di due mesi, l’8 Novembre, ci saranno le elezioni del Presidente degli Stati Uniti che da mezzo secolo sono le più seguite del pianeta. Da quel voto non dipende solo il destino di una nazione ma (ancora) di buona parte del mondo libero.
Correva l’anno 2008 e un giovane e rampante afroamericano sarebbe diventato il futuro inquilino della casa bianca. Ad attenderlo fuori dal nuovo mondo grandi sfide: l’Afghanistan,il terrorismo, le tensioni in Asia, la crisi globale e la rincorsa della Cina. Dopo otto anni, due mandati e una crisi economica com’è il bilancio?
Vediamo.
In Medio Oriente e Nord Africa le primavere arabe furono salutate da Obama come la pulsione verso la democrazia di paesi oppressi dall’autoritarismo, spingendolo (e spingendo l’Ue) a non interferire nel merito, esclusion fatta per una comparsata in casa Gheddafi. Ciò ha portato a una guerra civile in Libia, ad una dittatura militare in Egitto e ad una devastante guerra in Siria. Si sono lasciati i singoli stati da soli nel tutelare i propri interessi in un clima di abbandono generale (pensiamo a tutta la questione libica ed egiziana gestita autonomamente dalla diplomazia italiana, dagli investimenti dell’Eni, per arrivare al governo in Libia fino alla questione Regeni). L’avanzata dell’Isis, la crisi Turca e la crisi dei migranti che sconvolge l’istituzionalmente debole Unione Europea rinsavendo xenofobia, populismo e nazionalismo nasce dagli errori di questi anni.
In Europa orientale si respira un clima di guerra come non si sentiva da decenni. In pochi anni Putin si é ingozzato sotto il naso della comunità internazionale con penisola di Crimea e due regioni dell’Ucraina orientale. Il tutto sotto lo sguardo corrucciato ma inconcludente di Obama e dell’Ue, la cui misera reazione improntata a flebili sanzioni amministrative ha minato non poco l’autorità diplomatica statunitense e messo in luce la divisione europea sulla politica estera.
Nel pacifico resta aperta la disputa delle isole del Mar Cinese e le Filippine (ex-colonie americane) sono in mano ad un dittatore senza scrupoli. La questione del nucleare, il cui bilancio é parzialmente risolto in Iran ma in sviluppo continuo in Corea del Nord (proprio in questi giorni vi é stato il piu forte esperimento nucleare nella storia del paese), non é arrivata a un punto di fine.
La politica “dell’ammissione di colpa” di Obama a Cuba, nel Laos e in Vietnam ha portato a belle immagini e a titoli da Perestrojka, causando però nel paese a stelle e strisce malcontento, minore fiducia e volontà di militarismo a tratti xenobofo (“make America great again” detto in salsa non Reganiana ricorda qualcosa?).
Insomma, un compito difficile ma un voto che non si avvicina alla sufficienza, anche se un 6– (per l’impegno) lo si potrebbe anche dare; siamo di maglia larga. Però forse il problema sta proprio qui: nell’accontentarsi; nel dire “non bene ma non malissimo”, nella consapevolezza o nel melanconismo di buona parte dell’occidente di non essere più in grado di governare gli eventi in questa globalizzazione da noi creata, con la quale non sappiamo più fare i conti.
Tutto questo ha causato un Europa ma soprattutto in America un’aria di perdizione, di impotenza, di rabbia. Rabbia che, come polvere da sparo, qualcuno sta raccogliendo per utilizzarla nel fucile dell’ira.
Il revanchismo ha sempre causato danni nella storia. Oggi come 7080 anni fa. Più che tentare di recuperare il prestigio perduto con la forza e i cannoni, il successore di Obama dovrebbe ricordarsi che la stessa influenza che si vorrebbe (e dovrebbe) riprendere fu costruita sul pragmatismo e sulla raziocinio. Le grandi nazioni hanno sempre avuto grandi ragionieri.
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