America

Trump rischia di finire rottamato sulla sua rivoluzione fiscale

27 Aprile 2017

È stata annunciata come “il taglio di tasse più grande della storia” ma l’aggressiva proposta di riforma fiscale presentata ieri dall’amministrazione Trump corre il rischio di rimanere solo un (altro) roboante annuncio. Il piano, di impronta fortemente reaganiana e giustamente salutato da Wall Street con un robusto rialzo, mira a una massiccia detassazione. Le imposte sul reddito delle persone fisiche vengono riviste attraverso la riduzione degli scaglioni (da 7 a 3) e delle aliquote (10%, 20% e 35%, con esenzione fino a 24mila dollari); la tassa sugli utili di impresa viene ridotta dal 35% al 15%; è anche prevista l’eliminazione di una serie di imposte (come quella di successione).

Se i democratici già promettono battaglia sostenendo che il provvedimento sia soltanto un favore ai ricchi, i repubblicani non sembrano molto contenti. Secondo uno studio della Commissione Tasse al Congresso, la riforma genererebbe infatti circa 2.000 miliardi di deficit in dieci anni. Un elemento che molti conservatori non sono disposti a digerire. L’iter per l’approvazione della riforma appare quindi già in salita, aggiungendo nuova confusione a una situazione già complicata. Basti dire che lo stesso Trump ha per il momento rinunciato al finanziamento immediato per la costruzione del muro sul confine con il Messico.

I primi mesi dell’amministrazione Trump, del resto, non sono stati particolarmente tranquilli. Dopo l’eclatante vittoria dello scorso novembre, il magnate ha voluto mantenere fede all’immagine di uomo del fare, fortemente enfatizzata in campagna elettorale. Anche per questo, appena insediato, ha firmato un elevato numero di ordini esecutivi. Alcuni particolarmente controversi, come il divieto temporaneo di accesso agli Stati Uniti per cittadini appartenenti a determinati paesi musulmani. Ed ecco che – soprattutto in Europa – Trump viene presentato come il decisionista duro che attua le proprie promesse elettorali. L’uomo del fare che – al di là delle valutazioni politiche – agisce forte e sereno. Ma siamo veramente sicuri che le cose stiano così? Trump è veramente così risoluto come molti analisti tendono a sottolineare? Forse non esattamente. Cerchiamo di vedere perché.

Innanzitutto sgombriamo il campo da un mito: cioè che il neo presidente non abbia il favore popolare. Certamente le ultime elezioni sono state tra le più divisive che la Storia statunitense ricordi e – proprio per questo – hanno spaccato profondamente il Paese. E’ poi vero che il neo presidente sia stato sconfitto in termini di voto popolare. E sarà altrettanto vero che svariati sondaggi (non tutti) oggi esprimano giudizi severi sul suo operato. Vero tutto: ma attenzione alle conclusioni affrettate. Per prima cosa, la sconfitta nel voto popolare è un dato da prendere con le pinze: quel risultato infatti è principalmente dovuto al voto di due Stati popolosi come New York e California. Due Stati che – presi in sé stessi – non rappresentano certo le complessissime sfumature dell’intero elettorato americano. In secondo luogo, occhio ai sondaggi. Non dimentichiamoci troppo presto di quanto accaduto in campagna elettorale e – soprattutto – del fatto che le rilevazioni sondaggistiche, per vari motivi, facciano molta fatica ad intercettare i reali sentimenti dell’elettore trumpiano. In questo senso, che il Paese sia spaccato è indubbio. Un po’ meno invece che Trump goda di un indice di gradimento bassissimo: un’ipotesi che – proprio per il modo martellante con cui viene spesso ribadita – puzza effettivamente un po’ di bruciato. Infine, è lo stesso neo presidente che – nei momenti di difficoltà – non fa che appellarsi alla volontà popolare, attaccando l’establishment brutto e cattivo che vorrebbe coartarla. Ma il problema è proprio questo. Basta veramente l’appoggio popolare? Forse no.

Nonostante l’iperattivismo dimostrato, Trump è letteralmente sotto assedio. Il caos è tanto e – la cosa più interessante – è che questa grande confusione si stia consumando quasi interamente all’interno del campo repubblicano. I democratici sono infatti per ora in stato comatoso e – date queste premesse – non si riprenderanno tanto presto dalla batosta novembrina. Ma, tornando a Trump, i problemi da cui è circondato sono numerosissimi. Iniziamo dal Congresso. La maggioranza repubblicana in Senato è risicata. E proprio alla camera alta, i suoi nemici repubblicani affilano i coltelli. In particolare, il vecchio John McCain sta organizzando una vera e propria fronda per cercare di azzoppare la linea politica di Trump soprattutto in politica estera (a partire dal disgelo con Mosca). Nel dettaglio, McCain sarebbe a capo di un gruppo di senatori agguerriti (da Lindsey Graham a Ben Sasse, passando per Marco Rubio), pronti a tutto pur di mettere i bastoni tra le ruote al neo presidente. Certo, ora qualcuno potrà dire: che cosa ci interessa di McCain, uno che il popolo non si è mai filato, essendo stato battuto alle primarie repubblicane nel 2000 e alla General election nel 2008? Ma il punto è proprio questo. La Costituzione americana fu concepita non solo per bilanciare i vari poteri ma anche per diluire la volontà popolare che –  a torto o a ragione – i padri costituenti consideravano potenzialmente foriera di demagogia. In questo senso, siglare ordini esecutivi se poi il Congresso non li ratifica è semplicemente inutile. Così come è inutile appellarsi alla volontà popolare se poi questa volontà non si è in grado di incanalarla efficacemente nel processo legislativo.

Senza poi contare che la battaglia della fronda qualche frutto già l’abbia dato. Si pensi al recente siluramento del National Security Advisor, Michael Flynn: al di là del fatto dei suoi contatti con la diplomazia russa, è chiaro si sia trattato in buona sostanza di un atto politico. Flynn era tra i principali sostenitori del disgelo con Vladimir Putin. E non solo è uscito di scena. Ma è stato anche sostituito con il generale McMaster, che sulla questione russa ha delle posizioni quasi opposte a quelle del suo predecessore. Su questo delicato dossier incombe il rischio di impeachment per il presidente americano (v. altro articolo). D’altronde, anche lo stesso segretario di Stato, Rex Tillerson, da amico di Putin si è recentemente trasformato in uno strenuo difensore della NATO oltre che in aspro critico del presidente russo (soprattutto sul dossier della Crimea). Il tutto mentre la svolta sulla questione siriana mostra un deciso cambio di passo nella politica estera di Trump: un altro segnale di come i falchi repubblicani stiano pian piano prendendo il sopravvento.

Ma non è soltanto il Congresso ad essere problematico per il neo presidente. Anche a livello più specificamente partitico, i grattacapi non sono pochi. Tradizionalmente, il Partito Repubblicano è una compagine frammentata in una miriade di correnti spesso molto litigiose. I presidenti repubblicani (George W. Bush ne sa qualcosa) hanno sempre dovuto svolgere il ruolo di pacieri, per cercare di mediare tra fazioni agguerrite e ideologizzate. Oggi anche Trump si ritrova questo compito. Ma con l’aggravante che il neo presidente sia ancora considerato una sorta di corpo estraneo da buona parte del partito. E d’altronde, lo stesso Trump non ha mai mostrato troppo interesse nel riconoscersi repubblicano: nei suoi discorsi, ad esempio, non cita mai direttamente il partito, preferendo parlare del proprio “movimento”. Il punto è che una compagine così frammentata e ribollente può determinare dei guai serissimi per il neo presidente: basti pensare alla bocciatura – il mese scorso – della riforma sanitaria repubblicana, avvenuta a causa del boicottaggio condotta da alcuni deputati ultraconservatori vicini al Tea Party. Uno smacco durissimo tanto per Trump quanto per lo Speaker della Camera, Paul Ryan.

In un simile parapiglia, le difficoltà di Trump sono chiare. Al di là di come la si possa pensare nel merito della sua politica, il punto è comprendere come il decisionismo sia un atteggiamento che il presidente possa permettersi fino a un certo punto. E’ la grande maledizione dell’antipolitica: efficacissima in campagna elettorale, molto meno alla prova di governo. Trump ha fatto della critica al professionismo politico il cavallo di battaglia del proprio messaggio elettorale. E, con grinta ed oggettiva bravura, è riuscito a trionfare contro tutto e tutti.

Ma adesso la campagna elettorale è finita e i suoi nemici si scatenano, mentre lo spettro del politico di professione torna ad aleggiare, inquietante, sul suo fulvo capo. E tra i più pericolosi c’è proprio lui: John McCain. Il rottamato che non ha mai digerito gli attacchi. Il rottamato che vuole fargliela pagare. Il rottamato che non ha appoggio popolare ma molto potere in Senato. Il rottamato vendicativo che adesso vuole saldare i conti: costi quel che costi.

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