America
Trump sta veramente vincendo sulla sanità?
Giovedì scorso, negli Stati Uniti, la Camera ha approvato la riforma sanitaria avanzata dal Partito Repubblicano. In questo modo, l’elefantino ha cercato di cancellare lo smacco subìto un mese fa: quando il disegno di legge sanitaria, sponsorizzato dallo Speaker della Camera Paul Ryan e dallo stesso Donald Trump, era stato boicottato da una manciata di deputati particolarmente vicini al Tea Party. Il fatto aveva gettato in subbuglio il partito. Non solo erano iniziati a circolare pesanti dubbi sull’effettiva capacità di Ryan nel tenere le redini della Camera. Ma lo stesso Trump era finito al centro di polemiche: non era stato in grado di mediare tra le varie correnti repubblicane e – soprattutto – si trovava di fronte a un problema parlamentare non di poco conto. La riforma targata Ryan infatti tagliava nettamente svariati capitoli di spesa pubblica, per una cifra che si aggirava attorno ai 300 miliardi di dollari. Una sforbiciata che – nelle intenzioni del neo presidente – avrebbe dovuto contribuire al suo progetto di vigorosa detassazione. Un’idea tuttavia che, con il boicottaggio di Ryancare, era piombata in un vicolo cieco. Non a caso, la riforma fiscale, presentata la settimana scorsa dalla Casa Bianca, aveva suscitato non poche polemiche. E la domanda dei critici d’altronde era abbastanza chiara: con quali coperture il presidente avrebbe potuto sostenere il taglio della corporate tax dal 35% al 15%?
Trump tira quindi oggi un sospiro di sollievo. Con il voto di giovedì, il pantano sembra evitato e il presidente pare rafforzato. Ma le cose stanno veramente così? Proviamo a guardare la situazione più da vicino. Innanzitutto, la nuova riforma sanitaria repubblicana appare come un capolavoro di cerchiobottismo. Per cercare di venire incontro a tutte le anime del Partito, Ryan ha inserito nel pacchetto un insieme di misure fortemente contrastanti. Se da una parte si taglia l’espansione del programma Medicaid a partire dal 2020, dall’altra vengono però stanziati 8 miliardi di dollari per i malati con condizioni preesistenti. In questo modo, lo Speaker ha evidentemente cercato di trovare una sintesi tra i centristi e il Tea Party, raggiungendo una maggioranza che – per quanto risicata – è riuscita ad approvare il disegno di legge. In tutto questo, svariati milioni di cittadini perderanno l’assicurazione sanitaria, mentre non è ancora del tutto chiaro a quanto ammonterà esattamente il risparmio in termini di spesa pubblica.
Anche per questo, ancora una volta, il Partito Repubblicano non sembra particolarmente compatto. Già alla Camera, non tutti i deputati dell’elefantino hanno votato a favore della riforma (a partire da alcuni esponenti ultraliberisti). Ma è soprattutto al Senato che potrebbero sorgere i maggiori grattacapi: alcuni senatori repubblicani hanno già dichiarato di non apprezzare la riforma sanitaria. In particolare, si tratta di deputati legati agli Swing States, che non guardano di buon occhio diversi punti della proposta di legge: dall’abolizione dell’estensione di Medicaid al taglio dei sussidi federali previsti per gli ultracinquantenni (soprattutto in zone rurali come Maine e Nebraska). Per questo, diversi senatori repubblicani hanno affermato di volersi prendere il tempo necessario per analizzare la riforma, aggiungendo poi che – con ogni probabilità – il testo uscito dalla Camera subirà delle modifiche. I più centristi – come il senatore dell’Ohio, Rob Portman – temono i costi sociali di una simile riforma: costi che, a loro dire, finirebbero con l’indebolire il Grand Old Party sul territorio (soprattutto in vista delle elezioni di medio termine del 2018). Dall’altra parte invece ci sono i libertari che – come il senatore del Kentucky Rand Paul – vedono nella nuova legge sanitaria null’altro che una forma di statalismo travestito. Per loro, l’Obamacare dovrebbe essere semplicemente abolita, non sostituita. In tutto questo, non dimentichiamo poi che la maggioranza repubblicana al Senato sia particolarmente risicata: 52 a 48. Ragion per cui, basterebbero un paio di defezioni repubblicane per mettere seriamente a rischio l’iter della riforma. Un nuovo smacco, insomma, che né Trump né i vertici dell’elefantino possono permettersi.
Non sarà un caso che la Casa Bianca sia prontamente intervenuta, affermando che l’auspicio del presidente non sia quello di una riforma frettolosa ma di una riforma fatta bene. Concetto giusto, per carità. Ma forse non troppo realistico. E sono proprio questi i nodi davanti a cui si trova Trump. Non soltanto il presidente ha infatti a che fare con una riforma abbastanza confusa, che ha sacrificato sull’altare del compromesso la coerenza organica. Ma, più nello specifico, il magnate non può permettersi neppure di attendere troppo. Non soltanto per ragioni di credibilità politica. Ma anche perché, come abbiamo visto, la sua proposta di riforma fiscale ha urgente bisogno di trovare delle coperture. Una riforma fiscale che, tra l’altro, potrebbe incontrare ostacoli insormontabili al Congresso, vista la defiscalizzazione radicale che propone: una defiscalizzazione non apprezzata da numerosi esponenti dell’elefantino. Senza infine dimenticare che – soprattutto al Senato – la fronda repubblicana anti-trumpista ha tutto l’interesse a mettere i bastoni tra le ruote al neo presidente: ragion per cui, la camera alta rischia sempre più di trasformarsi in un Vietnam per il magnate.
La riforma sanitaria torna così ad inquietare i pensieri di Trump. Un incubo ricorrente, da cui il presidente ha bisogno di liberarsi. Per ora, l’iter appare lungo e accidentato. E l’America resta sospesa. In attesa di capire se si tratterà di una vittoria. Oppure dell’ennesima mannaia politica pronta ad abbattersi sul suo presidente.
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